1989 VENEZIA APPUNTI DI CINEMA

Dei dodici era quello carnasciale scorrendo il 1989 in una Venezia addormentata ch’appena emergeva a tratti dalla molle irrealtà spettrale delle sue nebbie opaline e dense. Cosi m’apparve sbarcando dal motoscafo quella città, l’indefinibile fascino d’un mistero amniotico, antico e voluttuoso di bizantini fasti che si esprimeva nell’intricato brulicame di rielli tra finestre mute, ponticelli, scalette ed archi bui. Saranno state le deserte corti, i vuoti balconi e le vaganti e rare figure che nel velario della nebbia svanivano ma era innegabile che fossi rapito dal forte imperio che tracimava da ogni calle dove, in ogni momento pareva potessero configurarsi avventurose immagini di cortigiane nello sfarzo di stretti e scollati guarnelli.Ero al seguito della troupe di Pino Passalacqua (mai nome di regista fu più consono ad un set) per girare una moderna versione del lacrimoso Dagli Appennini alle Ande per l’allora canale del biscione, munito come sempre del soilito arsenale di bazzoka, dolly, pedanine, cubi di zeppe, ciak e quant’altro potesse servire per ogni possibile ed improbabile inquadratura secondo i dettami di uno stile italiano che ti vuole assolutamente ignaro di quanto accadrà. Per l’occasione lagunare tutto l’armamentario era stato ordinatamente ammassato su due bolse e scostumate chiatte di legno denominate affettuosamente dai locali con l’appellativo di Topi. Iniziammo le riprese in una di quelle sontuose residenze seicentesce che si sporgono sul Canal Grande e, a nostre spese, scoprimmo subito che quel frenetico e tanto decantato nord-est lavorativo non aveva neppure sfiorato quella città mollemente adagiata sulla sua laguna. I tabaccai aprivano tardi e i ristoranti chiudevano presto. Una intollerabile discrasia per i lavoratori del dolceinganno. La prima settimana un inferno. Poi, considerato che Roma non aveva certo conquistato un impero per perdersi in un bicchiere d’acqua per quanto grande potesse essere, almeno questa era la filosofia di Sergio Allori, ultimo di una dinastia di macchinisti che avevano assistito ai primi vagiti del cinema, riuscimmo a scovare un “boiaccaro” che, non potendo assolutamente cucinare ci avrebbe atteso con le serrande abbassate e il lungo tavolo apparecchiato, qualsivoglia tarda ora avessimo fatto. Tarcisio Diamante, altro grande interprete di quelle maestranze che hanno piantato i pini che lungo i viali di Cinecittà sfiorano i teatri di posa circui un ignaro tabaccaio che fu saccheggiato con la delicatezza d’una banda di lanzichenecchi.Umberto, invece, di quello sceneggiato era il piccolo protagonista. Un ragazzino composto, azzimato ed educato oltre l’inverosimile, perennemente scortato da una teutonica balia che, i genitori, erano altrove. Non ricordo come avvenneche quel ragazzino si uni a noi nelle abbuffate presso il comprensivo e venale “boiaccaro” (forse perchè Tarcisio faceva il filo alla balia) ma fatto stà che tra risi e bisi, sarde in saor e nervetti, quel ragazzino fu irrimediabilmente traviato. Dopo pochi gioni parlava come un carrettiere e le barzellette sconcie non avevano più misteri, nulla potendo la disperata balia per ricordurlo sulla retta via che, questa, era definitivamente smarrita.Il piano delle riprese aveva previsto una serie di “totali” nel salone dove sarebbero avvenute alcune scene, cosi da descrivere l’ambiente ma quella mattina fu subito chiaro a tutti che qualcosa non andava: Un senso di assenza difficile da definire perchè ogni cosa era al suo posto come verificò anche la segretaria con le polaroid che aveva scattato i giorni precedenti. Eppure…eppure qualcosa non quadrava. Un vuoto: un Grande vuoto che non si collocava. “Dottò er lampadario!” Dal soffitto pendeva nuda e spoglia la catena, monca. L’enorme lampadario di cristallo che colmava e dominava la scena non c’era più. Nel cuore della notte il Marchese se l’era giocato al casinò. Il resto delleinquadrature sarebbe stato “stretto”, molto stretto, ad escludere quanto era irrimediabilmente perduto. I critici avrebbero detto; uno stile molto più intimista.

 C’è stato un genere cinematografico che nel passato ha dovuto subire l’altezzoso disprezzo di paludati critici dalla facile penna malevola, intellettuali votati per succube dedizione all’esterofilia.  Un genere bistrattato finanche nella sua etichettatura; spaghetti-western.  Nel mio immaginario, come in quello di molti altri con cui condivido l’anagrafe, Giuliano Gemma è ancorato a quei film che da ragazzino consumavo nelle terze visioni o nei cinema parrocchiali dove il fumo delle sigarette saliva a molli volute nell’aria ferma, immobile ed attenta della sala, andandosi ad ammassare in arabescate nebbie attorno al cono di luce del proiettore, risucchiato nel vortice di quel lungo fascio luminoso scattante e traballante, creando un avvolgente spettacolo di sirenidi spirali molli e voluttuose, ghirigori che erano una magia ipnotica, magnetica e sognante.  Un altro di quei mondi andati ch’a tratti riemergono teneramente dagl’argentati cancelli della memoria.

 

     I più sono all’oscuro che quei film tanto denigrati in patria, ebbero uno stratosferico successo proprio in America, dove il doppiaggio è sconosciuto ed i rumori che lo spettatore ascolta nell’amniotico buio della sala sono quelli registrati dal vivo che, all’orecchio, risultano sgradevoli, irreali e falsi.  Gli americani impazzirono per le capacità dei nostri ” rumoristi” non avendo mai potuto apprezzare il sognante piacere del prolungato sibilo della fucilata che rincorre la figura nell’orizzonte sempre più lontana fin quando con un secco schianto non la colpisce e stende o il soffocato tonfo del pugno che in una rissa colpisce lo stomaco ed il conseguente sbuffo del malcapitato, ch’ogni cosa nel dolce inganno per poter essere vera, dev’esser finta.

 

     Senza cinturone ne pistole ma elegantemente avvolto nel paltò di cammello, i capelli leggermente canuti dal tempo, vederlo scendere dal motoscafo in quel pittorico scenario d’incanto che è Venezia d’inverno, fu una straordinaria sorpresa.  Giuliano Gemma è uno di quei personaggi del Cinema italiano che si è saputo costruire nel tempo diventando a pieno titolo uno dei Signori del Cinema.  Gentile, sicuro di se e disponibile come possono esserlo soltanto coloro che il dolce inganno l’hanno incontrato per caso, navigato come un fantastico gioco rimanendone posseduti.  Il suo un “cammeo”.  Una di quelle partecipazioni che arricchiscono un film fatte di solito come piacere.

 

     Erano sul balcone della regale dimora adagiata sul Canal Grande, Gemma e Tarcisio Diamante, in una di quelle pause di lavorazione dove il set muta e si trasforma, cambiano le luci e il giorno si fà notte e l’inquadratura successiva non ha più nulla a che vedere con la precedente che, del film, il senso  nascerà solo in sala di montaggio dove ogni spezzone cucito l’uno dopo l’altro daràvita a quel magico sogno in cui lo spettatore si immergerà come un bambino.  L’anziano macchinista si divertiva a urlare frasi sconnesse e senza senso al comandante d’un battello che giù di sotto solcava l’acqua trasportando la spazzatura di quella città d’incanto che, nella sua straordinaria grazia pareva essa stessa un enorme e gigantesco set cinematografico posto nella laguna per la delizia dello sguardo.  Così, questo, lo sguardo levato nell’aria cercando da dove venissero quelle scomposte grida si distrasse dal monotono e quotidiano navigare entrando in rotta di collisione con il vaporetto che nella direzione opposta sopraggiungeva ignaro.  per evitare l’urto il comandante virò bruscamente, travasando gran parte dell’immondizia nelle acque non giàun gran chè pulite del Canale.  Giuliano e Tarcisio s’accucciarono dietro la ricca balaustra arabescata ridendo come monelli mentre nell’aria fredda si ripercuotevano le pittoreseche ed indicibili imprecazioni del capitano.

  Se la Dominante, unica nello scenario del mondo, aveva la serenissima abitudine d’assistere indifferente allo stupefacente miracolo dei suoi abitanti che come novelli cristi redentori camminavano sull’acque, il 1989 passò agli annali per il fenomeno diametralmente opposto.  Con teutonico rigore degno di miglior causa, ogni sei ore la città si faceva scussa del suo equoreo manto ch’insieme alla doviziosa opulenza artistica era mistero, fascino e affabulazione. L’acque si ritirivano chiamate in uno sconosciuto dove ed in felpato e discreto silenzio s’abbassavano senza clangori.  Così nuda nel muto labirinto dei canali mostrava le fondamenta in pietra, le palizzate corrose dalla peforante piorrea dei vermi ed orbicolari scarichi gettanti inchiostrati rigagnoli. Erano fondali in secca, melanconici e tristi come una vecchia antica kungo un viale di platani.  La ristagnante melma e carcasse d’immondizia gettati cadaveri globali nel tempo.  Pareva quasi che al doce inganno volesse mostrarsi nel volto che solitamente nega alla grana dello sguardo.

 

     L’inverosimile ritiro della marea ci costringeva a fenomenali acrobazie allontanando dalla portata dei meno aglili gli intagliati gradini degli attracchi per i motoscafi.  Ad ogni rientro in albergo la troupe di doveva ingegnare per trasbordare sulla terra ferma la possente mole della nostra segretaria. Sospingere ed innalzare quell’opulenza carnale da un’oscillante barca senza l’opportuna attrezzatura era operazione ardua e bizarra, essendo la signora priva delle apposite maniglie e non trattandosi d’una cassa o altro consueto oggetto filmico.  Nessuno aveva l’esatta cognizione  su dove prenderla ma, per quanto ogni sera cambiasse la strategia come il posizionamento di ognuno di noi, Tarcisio Diamamnte si dedicava esclusivamente, quale novello Titano, a sostenere con cura quella abbondante parte podalica che, a secona dei casi, viene definita più o meno nobile.

 

     Ogni giorno il dolce inganno si componeva d’una sua tessera, la pellicola scorreva diligentemente trasportata dalle dentate ruote della mitica Arriflex ammucchiandosi in sigillate pizze metalliche che non avrebbero visto più altra luce che quella plasmata da Rodriquez, operatore e direttore delle luci.  Ma, per le strette e solitarie calli s’andava affacciando un ben altro carnale evento con le sue mute maschere di sfarzosi velluti e setosi damaschi.  Erano perle e pietre e piume di struzzo che ben volentieri si concedevano allo sguardo indiscreto della mia Minolta.  Un’altra venezia ancora che d’un tratto appariva da dietro un colonnato.  La furtiva grana dello sguardo lungo i misteri d’una rigida maschera ingemmata che ricoprendo interamente il volto pareva vegliare su languenti sogni d’amori infedeli.  In un bar l’immobile pallore d’un Pierrot, simile ad altri e diverso ch’a Venezia anche la solitudine s’ammanta di romantico splendore.  Tra gallerie di colonne dagli svariati archi gettanti e rampanti, volte e marmoree foglie d’acanto, antichi volti truccati che paiono usciti da un quadro di Giogione nell’umido scendere di sera. Altre anime ignote poggiano il loro profilo nel fine traforo di pietra con l’attitudine di viventi sfingi tra strette penombre come nell’accecante fulgore di San Marco.

 

     Ogni q1ualvolta chr quell’umana pelle delle cose che3 taluni chiamano banalmente cinema mette assieme la variegata truppa che tenteràd’entrare indiretta competizione con la divinità, ognuno di noi è consapevole che quel dolce inganno avrà un termine.  Eppue, eppure quel giorno pare arrivare all’improvviso come fosse inaspettato.  Così catturo quell’anime carnasciali una ad una mano a mano che si manifestano come colorati bagliori di screziati colori consegnandole ad una sorta d’anonima immortalità che, battuto l’ultimo ciack in quellp’incancantato teatro di posa , aperto panorama su un mondo perduto il nostro tempo era scorso fluendo giorno a giolrno nella lunga teoria d’accatastate pizze che, a Roma, in sala di montaggio attendevano di farsi aperto occhio sul mondo.

 

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