CAFFE’ GRANDE

CAFFÈ GRANDE

di 2emmepi

 

Collana “Incursioni erotiche

2010

Mondostudio

Edizioni

 

ISBN 978-88-95700-24-3

© MONDOSTUDIO EDIZIONI – Cassino (FR)

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Impaginazione a cura di Mario Lagi

Era una di quelle fredde mattinate avare di luce,ch’annunciava il suo lividore nelle fangose pozzanghere mezzo seccate ai lati della strada. Il chiassoso stridore di quella cittadina ancora rinchiuso tra le sue finestre. Seduto nel mio silenzio, lontano dall’altre ombre umane, attendevo sulla corriera l’ora della sua partenza. Senza sapere chi fosse ognuno di noi, le nostre solitudini si conoscevano tra loro, in quegli stessi sedili come ogni giorno e da tanti anni che non volevo più tenerne il conto. Non mancava nessuno a quel muto appello che inconsciamente facevamo ingannando l’attesa senza rivolgerci parola che non essendo interessati alle nostre esistenze non potevamo appassionarci a quelle dell’altri. Per motivi che non erano spiegabili, quell’ora era passata senza che quell’antiquato e bombato mezzo fosse partito. Curiosamente, nessuno di noi aveva sollecitato l’autista, quasi che quel ritardo potesse essere una sorta di diversivo che, in qualche modo, poteva mutare il corso d’una giornata ch’altrimenti si sarebbe dispiegata senza altri sussulti fino a sera.

 

Finalmente la corriera si decise a richiudere due o tre volte sue porte che di getto non le riusciva mai di farlo in una sola volta e tremando sui suoi vecchi assi si mise in marcia. Alle stesse e solite fermate, la gente s’era ovviamente ammucchiata più del solito per quel ritardo e lei, probabilmente, era salita assieme ad una di quelle barbariche orde di giovani studenti ch’ad ogni sosta andavano affollando quel mezzo con il clangore del loro esasperante ed inutile vociare. Non essendo in quello stato d’animo che si dispone ad un qualsivoglia tipo d’incontro, nel mezzo di quell’anonima moltitudine di visi, non l’avevo neppure notata, ma nell’improvviso sussulto d’una brusca frenata, i nostri sguardi s’erano incrociati.

 

Non avevo dato molto peso a quel primo e fugace abboccamento durato il tempo breve d’un battito di ciglia che poteva ben essere il capriccio fortuito d’un fortunato incidente. Poi mi resi conto che seppure mandavamo le nostre occhiate a vagabondare per altri infruttuosi percorsi, queste frugavano appena attorno per tornare a cercarsi che in quel mezzo d’altri visi scialbi ed indifferenti, i suoi occhi parevano prillare d’una luce particolare ed attraente che tutti gli altri spegneva come se solo in quelli albergasse l’onda della vita.

 

Ero ancora lontano dalla mia quotidiana fermata e non avendo nulla di meglio da fare mi lasciai piacevolmente andare a quel prendersi e lasciarsi in cui i nostri visi attratti si crogiolavano e nel diversivo di quel gioco, i miei pensieri che s’abbandonavano sconnessi a fantasie che mute e silenziose non tradivano i loro segreti, tenendomi compagnia. Le sorrisi, che non posso negare ch’ero compiaciuto per quella attenzione ed in quella distanza che ci separava, le sue labbra che ricambiano quel saluto.

 

Un godente palpito che valeva più di tutte le parole investì con la sua breve e calda folata l’amaro aroma plumbeo di quella giornata. Risulterebbe difficile stabilire chi fosse stato dei due a seguire l’altro, ambedue scendendo ad una fermata che non ci apparteneva dinnanzi ad un bar che di grande aveva solo la pretenziosa insegna vagamente liberty. Di poche cose ancora oggi sono assolutamente sicuro, una di queste ch’era una di quelle mattine ricolme d’ugge, l’altra che una volta entrati mi permisi l’ardire d’offrirle la colazione e che lei accettò con un gradito sorriso che mi parve curiosamente familiare. Non avendomi più abbandonato quella misteriosa sensazione arcana ed epidermica che non aveva alcun motivo di restare intrufolata nella mia mente, a me essendo lei assolutamente sconosciuta. Sarei arrivato tardi al lavoro, un evento che non era mai accaduto per quello che potevo ricordare e che, stranamente non turbava affatto i miei pensieri, coinvolti dalle maniere leziose che lei dedicava alla sua briosce, accuratamente scelta tra altre che m’erano sembrate esattamente identiche ed assai poco appetibili.

 

Un’esasperante lungaggine che in altri momenti sarebbe stata intollerabile. Invece il lento e molle svolgersi di quei sinuosi gesti pareva spargere la sua lieve garbatezza lungo tutto il bancone di quel modesto bar dall’appellativo così indebitamente altisonante. Le dita minute e sottili, scrupolosamente curate, staccavano delicatamente dei minuscoli frammenti che portava alla bocca gustandoli tranquillamente e senza nessuna fretta. Ci vedevamo riflessi nello specchio, consumando quel tempo come ne avessimo da gettare a iosa, parendo figure d’altri tempi e ci sarebbe voluto un coltello per recidermi dal piacere di quegli istanti che si profondevano educati e silenziosi nella mia assurda speranza che quella piccola briosce le potesse durare per tutta la mattinata.

 

D’improvviso quelle sue dolci e morbide labbra, parlarono. Mi chiese se avevo un nome e credo che mi scossi da quell’estasi nel sentire che quella creatura aveva anche una voce, visto che fino a quel momento aveva taciuto sempre sorridente. Non ho mai creduto che me lo chiese per fare conversazione. Non ne stavamo facendo e sembrava che la cosa non turbasse nessuno dei due. Nemmeno credo fosse realmente interessata alla risposta, considerando come in seguito si sarebbe dispiegato quell’incontro. A posteriori ho sempre pensato ch’avesse soltanto voluto far risuonare il timbro della sua voce nell’aria spenta di quel modesto ambiente affinché la memoria di quel suono non potesse mai impallidire e se veramente era stato quello il motivo, oggi non posso darle torto.

 

Quella voce, vagamente infantile e puerile, io ancora la ricordo, anche se, in quel momento ero convinto che con ogni probabilità non l’avrei più incontrata e che avesse solo ceduto ad un fortuito e passeggero momento di debolezza del quale si sarebbe pentita. Ma come ogni uomo di questo mondo, allora mi sopravvalutavo non potendo nemmeno sospettare di cosa potesse essere capace una donna pur di realizzare un suo desiderio. Ne avevo molti di nomi da poter spendere in quella sola risposta, tanti da potermi perdere nel bigio moto ondoso d’un monologo lungo e per lei, probabilmente, privo d’ogni attrattiva. Era l’unica eredità di fasti screpolati e da molto ormai decaduti. Gliene diedi uno, non il primo con il quale ero solito chiamarmi ma quello che mi sembrava più adatto in quella circostanza che pareva svolgersi in un altro tempo che non era quello vissuto. Era un vezzo bizzarro quello dei nomi che talvolta m’accadeva quasi senza volerlo con chi non apparteneva al mio ristretto cerchio di conoscenze, così che non era una menzogna – che un vecchio e desueto codice m’impediva, pur non essendo completamente una verità, che fuori dal lavoro ero un’altra persona.

Declinò leggermente il capo all’indietro offrendo lo slancio delicato ed indifeso della gola, divertita da quel nome forse troppo antiquato e desueto ed io ebbi l’impulso di lasciarmi scivolare lungo quell’attraente curva che nella scollatura del vestito si profondeva tra forme morbide e generose.

 

Non lo feci resistendo a quella tentazione come spesso m’accadeva da tempo di fare ch’a volte basta un attimo a stravolgere una vita intera e questo, questo io, lo sapevo bene. Aveva la pelle levigata, tesa e serica tra quelle colme anfore carnali che presentavano quel loro solco in cui lo sguardo si gloria di perdersi ed oggi quando ancora la sua effige tra gli argentei cancelli della memoria, mi rammarico di non poterle dare un nome che quel volto resta lì sospeso nell’attesa d’essere chiamato e codesto mio ricordo in quel muto richiamo può essere soltanto – Lei. cuore ubriaco di quella sua figura, nel terreno bruciato ch’era il mio petto, ebbe un moto d’impertinenza che non m’apparteneva affatto. Le chiesi se potevo telefonarle per rivederla, io che di quell’apparecchio acustico che mostrava le voci nascondendo i volti, avevo una profonda avversione. Il labbro superiore le s’era velato appena della morbida e schiumosa crema del latte caldo che sorseggiava ch’io avrei volentieri ben pulito se me ne avesse dato l’occasione. La punta rosata della sua lingua vi scorse sopra più volte ripulendolo. Mi fissava da dietro la tazza sorretta tra le mani al di sotto di quegli occhi che dubbiosi si stavano chiedendo qualcosa. Ma in quel momento ero rapito solo dalla grana zuccherina del suo sguardo, appeso al filo della sua risposta, seguendo quel movimento tra le sue labbra mentre il caffè rimaneva intatto sul bancone. Scosse il capo in un gesto di diniego che in verità, m’aspettavo.

 

Lasciami il tuo numero. Chiamo io ed ancora la grana sottile e delicata di quel suo sguardo sempre più stranamente familiare che in quel momento aveva già deciso. Senza riflettere com’avrei dovuto, le passai uno dei miei biglietti da visita. Ero stato impulsivo e precipitoso. Il nome che le avevo appena dato doveva essere soltanto il secondo o il terzo d’una lunga teoria che compariva su quella piccola pergamena blasonata e lei, sempre guardandomi, sventolò nell’aria quel cartoncino, il capo reclinato su di un lato e le labbra corrucciate  come se quella piccola e modesta insincerità fosse un accadimento d’una gravità inaudita tra due persone che, non essendosi dette nulla, avrebbero dovuto dirsi tutto senza nascondersi niente. Prima ch’io potessi spiegarmi aveva già lasciato quel bar,brandendo come un trofeo quel rettangolino di carta di cui, in ben altre occasioni decisamente più formali, la mia vanità era stata orgogliosa di poter esibire con una certa non curanza. Una folata di vento le scompigliò la chioma oltre la trasparenza del cristallo che su di lei si richiudeva, la sua veste, gonfia di quell’alito, svanendo nella strada che s’andava affollando. Non mi rimase che pagare il conto, modesto come quella mia avventura, pensando che quei numeri sarebbero finiti nel fango della prima pozzanghera oltre la vista di quel bar.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

In quel tempo mi servivo dei mezzi pubblici, pur potendomi permettere una vettura, per una vecchia condanna che, oltre a ben altro, m’aveva sottratto la patente. Quegli esami per riaverla procrastinati nel tempo, divenendo uno di quei che restano incompiuti senza mai realizzarsi, facendo tacere  voce che si regge appena nell’esalato torpore che diviene l’abitudine, dove quello, con altri perduti gesti, s’annulla e si spegne in un mormorio di fondo che lentamente si fa distanza. Oggi penso che era solo un modo per sentirmi partecipe di quell’umanità ignara che mi viveva attorno, credoche fosse il retaggio d’un pudore per quello che m’ero ritrovato a fare.

 

Non era un vero e proprio lavoro, il mio, anche se in quel tempo lo consideravo tale essendo l’unico ambito dove la mia inquieta esistenza acquistava uno spessore reale e tangibile e lo svolgevo in un modo accurato e maniacale che, per certi versi, era perfino apprezzabile, anche s’ero anomalo in quel cinico non produrre niente d’utile. Il settore in cui svolgevo quella mia particolare abilità era stato la mia giovanile e selvaggia passione per cui avevo pagato quel prezzo, tutto sommato nemmeno troppo alto e che in quel tempo era infinitamente lontano da quell’ideali liberi e caotici che soltanto una giovane età illusa poteva possedere. Non ero felice ma ero sopravvissuto a me stesso ed anche piuttosto bene da un punto di vista squisitamente economico che non riusciva però a colmare il senso della mia esistenza come se fossi due persone, una distinta dall’altra ed uno ad uno in quella dualità fuggivano i miei anni, diramando nel profondo la loro vena segreta, cercando d’inghiottire i tremanti ricordi di quello ch’avrebbe potuto essere e non era stato.

 

Quel giorno, ovviamente, avevo fatto tardi e serpeggiava un mal celato stupore nella corte dei gregari ch’era assegnata alle mie momentanee dipendenze. Un’insolita anomalia che doveva aver turbato la monotonia della loro attività falsamente produttiva. L’evento aveva suscitato la servile attenzione d’una delle segretarie. Una maldicente agiografa di quell’ufficio, piacente e disponibile concubina di qualsiasi forma potesse assumere il potere. Per tutta la mattinata s’era continuamente affacciata alla mia porta preoccupandosi per lo stato della mia salute come se la cosa l’interessasse veramente.

 

Una mente arida e profittatrice che non poteva avvedersi di quanto accadeva nel breve vano di quella mia stanza dove tra le bandiere ed il severo ritratto del presidente accanto al crocefisso qualcosa intaccava perfino l’ingombro di carte sulla scrivania. Quella mattina mi pareva facile mutare il tedio di quello spazio in un luogo aperto ed infinito che sconfinava oltre la finestra chiusa per quel solo battito di ciglia sospeso in uno sguardo che, fissandomi, non s’era più allontanato. Nemmeno il continuo presentarsi ancheggiante di quella piacente cortigiana provocante riusciva a farmi emergere da una sorta di distaccato torpore che m’aveva avvolto nel suo abbraccio dondolante. Era lieve l’aleggiare di quel battito appena oltre il bordo della porcellana. Perdute vibrazioni delle mie sensazioni come se non fossi uscito da quel bar e, nel ricordo, quell’immagine lenta e rallentata che mutava di continuo la sua accattivante prospettiva.

 

Per poter entrare ancora nella stanza, m’aveva preparato del caffè e me lo stava poggiando sulla scrivania. Non m’ero nemmeno accorto che fosse entrata. Avendo più volte subito il mio essere volubile e strano, doveva aver ritenuto che quella mattinata fosse uno di quei miei giorni. Non aveva detto nulla chinandosi in avanti, porgendomele libere e tremule nel disinvolto ed ampio ritaglio della scollatura di modo che potessi accorgermi ch’addosso non aveva nulla che le sorreggesse. Fruibile e disponibile, si considerava una raffinata signora pur disponendosi al mestiere delle antiche. Mi sarebbe bastato, com’altre volte, di chiudere a chiave la porta che, a suo dire, non le dispiaceva affatto l’essere riversa su quella scrivania e presa con soltanto la gonna alzata. Non era vero, me lo faceva credere, convincendosi lei stessa d’essere trasgressiva in quel suo farsi traditrice. Come tutte le donne della sua specie ricercava un utile che non avevo alcuna intenzione di concederle, non avendo una gran stima per quel tipo di persone che disprezzavo. Nel segreto del mio essere sentivo di somigliarle in quel tempo e non volevo ammetterlo, mentendo se non agli altri, con me stesso.

 

La ringraziai con quell’educazione ch’era un retaggio antico di generazioni, congedandola e quella s’allontanò per quella stessa strada da dove era venuta, dimenandosi nel vestito troppo stretto. Di biancheria addosso, quella mattina non ne aveva messa alcuna. Bevvi quel caffè ed era caldo e piacevole come le forme di quel corpo che se n’era appena andato. Era il primo di quella giornata e mi rivenne in mente quello ch’avevo lasciato a freddarsi inutilmente sul bancone di quel bar svanendo anch’esso il suo aroma tra i cigli di quell’ossessionante sguardo ch’ormai conoscevo in ogni suo dettaglio.

 

Era tra quegli accatastati cumuli di carte ch’avevo davanti, la bozza d’un nuovo ed inesauribile eldorado ch’ammiccava tra quelle cartelle senza appassionarmi com’avrebbe dovuto.  Privatizzazioni. La nuova magia d’una parola ch’era una miniera di denaro contante e, continuamente, rinnovabile. Un ben diverso affare dal semplice e banale mutare terreni che non lo potevano essere in aree lucrose ed edificabili. Fino a quel momento l’unico vero e reale motivo d’essere d’ogni municipio esistente. Non erano carte, veline o appunti, ma denaro liquido e solvente ch’attendeva soltanto d’essere mietuto e non me ne importava nulla.

 

Posai la tazzina nel suo piattino che quella era mia e di nessun altro, prendendo tra le dita uno di quei miei bigliettini eleganti e pergamenati, sventolandolo nell’aria come aveva fatto lei. Quel gesto non scacciò nulla, anzi reclamò d’imperio la presenza d’altre più tristi melanconie. Una soffocante e devastante solitudine che non volevo in alcun modo tornare a provare. Trattenni il respiro. Il mondo esisteva ancora ed a me non piaceva, uno stupore che non credevo mi fosse più possibile. Cercai di rifuggire a quei pensieri afferrando un mucchio di quelle carte ch’avevo davanti. Il denaro poteva comprare tutto ed era su quella scrivania. Il tempo, anche quello era importante ed io lo stavo sciupando con inutili fantasticherie. Dovevo ritrovare il mio pragmatismo. Avevo soltanto pochi giorni per fare mutare la ragione sociale di quelle aziende che dovevano partecipare alla gara d’appalto come unici soggetti possibili, tutte già in un modo o in un altro collegate tramite una stessa persona ed era quella solo la prima d’una lunga serie che i servizi erano molti e  cercavo di convincere il languido velluto di quello sguardo che continuava a scivolare senza sosta lungo tutti i cristalli di quell’ufficio che quella era un’impellente necessità che non poteva attendere. Era più facile ed economico, le dicevo, che ricrearle di sana pianta o metterne altre d’accordo tra di loro che quello sarebbe stato quasi impossibile e pericoloso se qualcuno avesse parlato e lei, lei scuoteva la testa dubbiosa e quel tempo si disfaceva molle e pigro accatastandosi inutilmente su se stesso. Ogni appiglio mi risultava vano ed inutile per pensare ad altro che altro erano solamente quei suoi occhi stranamente amici tra quegli anonimi volti di folla. Occhi che si riproponevano eguali e diversi nelle molteplici angolazioni di quelle mie visioni ch’erano come una serie di moderni dipinti nella pinacoteca della mia mente.

 

Ancora quella cortigiana ch’impertinente alla porta si riaffaccia domandandomi se potevo avere bisogno di lei e per un istante penso davvero d’approfittarne di quella sua servente benevolenza. Anche solo della sua chiedente bocca che non si sarebbe sottratta al delicato uffizio di risucchiare fino in gola quell’inquieta ansia crescente che non mi consentiva di fare nulla. Per quanto possa apparire inverosimile quanto irrazionale, in quel momento credetti che s’avessi accettato quella insistente offerta avrei in qualche modo tradito l’onnipresenza di quello sguardo che non avrei più sicuramente rivisto e rimandai ad un più tardi indefinito le sue licenziose speranze d’essere usata dalle libertine voglie di quel potere che nelle sue semplici fantasie, io, rappresentavo.

Provai nuovamente a riporre la mia attenzione su quei fogli ch’avrebbero dovuto essere l’unica cosa veramente importante di quella giornata iniziata in ritardo, cercando di convincermi che non avrebbe telefonato, che era inutile e la stanza iniziò a sembrarmi troppo stretta per contenermi. In definitiva mancavano solo dei dettagli, dicevo a me stesso vedendo avanzare quelle pareti, nessuno si sarebbe sobbarcato l’impegno necessario per un controllo, eravamo tutti d’accordo e se anche quella improbabile eventualità fosse sovvenuta a qualcuno, avrebbe visto soltanto che per quanto l’offerta più bassa era oltremodo alta, questa rimaneva assolutamente vantaggiosa rispetto alle altre. Nessun costo per quell’ente, le spese a carico solo dell’utente. Rilessi quel protocollo d’intesa che in seguito avrei bruciato gettandolo nello sciacquone che la mancanza di carta per le fotocopiatrici serviva anche a quello.

 

Le avevo dato scioccamente il mio biglietto che sicuramente aveva gettato non appena uscita ed io, alla mia età, mi stavo illudendo d’un qualcosa che non sarebbe avvenuto. Eppure era piacevole quell’illudersi e fantasticare che la mia esistenza di quel tempo non mi piaceva affatto. In una indefinita lontananza, dentro di me qualcosa andava ribellandosi. In definitiva era solo un appalto per la lettura e la riscossione d’utenze pubbliche. Nel suo piccolo un gigantesco affare privo di rischi, freddo, burocratico e senza passione. Erano stati necessari anni ed anni, con la complice mancanza di tutti, per disastrare quello com’altri servizi ed ora potevamo raccoglierne i frutti se solo io avessi preparato quei documenti per rendere vantaggioso un appalto che non poteva esserlo nemmeno lontanamente e che pure ad un distratto esame avrebbe evidenziato un vantaggio economico per l’ente ch’aumentava le sue entrate. Un capolavoro quel gioco di specchi ch’avrebbe taciuto le già deboli coscienze d’ognuno che sapeva quello che stavamo facendo ed una semplice colazione in un bar stava scompigliando tutto.

 

Ancora una volta mi dissi che stavo commettendo un errore rimandando quello ch’avrei dovuto fare subito e che dovevo concentrarmi soltanto su cose pratiche. Quelle pratiche. Se avevo qualcosa da sfogare, oltre la mia porta chiusa c’era chi era ben disponibile a farlo e senza spendere nulla, nemmeno il costo d’un caffè. Avevo già fatto vincere una ditta e ancora doveva perfino essere pubblicato l’appalto. Avrebbe riscosso un’alta percentuale su ogni bolletta e l’esubero di quell’esagerato agio avrebbe seguito il suo solito e naturale corso. Le letture di quei contatori sarebbero state gonfiate per far lievitare quella percentuale e se tutto questo non bastava, se pure l’utente se ne fosse accorto, avrebbero restituito la differenza dell’indebita lettura ma non la percentuale già incamerata. Quelli che potevano definirsi come i miei datori di lavoro non potevano sperare d’ottenere oltre da quella gara anche se i loro bestiali appetiti erano insaziabili. Quei potenti imbecilli potevano pure aspettare ancora un giorno. Mi misi il paltò e lasciai l’ufficio che s’era fatto veramente soffocante e stretto.

In quel tempo non producevo nulla di utile, come da giovane m’occupavo di politica, anche se quella era una parola d’un’altra epoca, quando non esistevano ancora quelle che oggi usiamo.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

A lato dell’invetriata d’un piccolo balconcino aggrappato nel pietroso costrutto d’uno dei tanti centri storici nobili decadenti, guardavo il commovente grembo della valle che sinuosa d’orti e ciuffi di boscaglia, andava rimenando l’onda amara di quella mia esistenza. Il tempo non era cambiato e quella plumbea e cupa tristezza del cielo che si mostrava solo per brevi pezzi sarebbe durata molto probabilmente per tutto il mese. Non avevo mangiato nulla ma non me ne curavo affatto. La mia fame s’era appagata in quei suoi piccoli sorsi di solo latte e zucchero. Una forma per rompere il digiuno notturno che non mi era più capitato di vedere dagli anni dell’infanzia e questo, evidentemente, oltre a sorprendermi, doveva avermi anche saziato. Seduto sulla poltrona accanto alle imposte bevevo un tè nero forte, senza zucchero e bollente che lasciava languire il giorno facendomi sprofondare in una insistente melanconia egocentrica che non mi faceva attuare nulla di tutto quello ch’avrei potuto fare. Bevevo il tè come se quella potesse essere un’attività capace di significare qualcosa, senza che nessuna ombra umana mi potesse distogliere da quell’assorto rito. Lentamente quella sensazione s’espandeva in un universo muto, silenzioso e sospeso in una sorta di limbo. Era in quell’immobile defluire che si faceva dolce ed accogliente la presenza di quell’inarrestabile deserto che in quel cerchio chiuso s’avvisava infinito dentro se stesso. Era il mio esistere una mancanza anche se in quel tempo non volevo ancora certamente ammetterlo, nonostante l’imperio di quel nulla che se nell’estate attenuava il suo morso, si faceva invece sentire nel marezzo degli alberi ch’andavano ingiallendosi perdendo le foglie. Era l’animo mio in una città lontana che scaglia a scaglia mutava il suo colore. Mi mancava quell’illusione dove la vita nasce e si procrea lanciandosi nel cielo come un aquilone ed il suo cercare il mio sguardo e non quello d’un qualsiasi altro, la scintilla ch’aveva smosso il mio monotono ed inutile andare per quel mondo che non apprezzavo. S’era bastato così poco per farmi ricordare da dove ero venuto, dovevo essere diventato una ben poca cosa ma in quel tempo ancora non lo capivo. In quella protesa attesa s’andava abbandonando la mia sempre meno fiduciosa speranza, oramai impigliata nel molle manto della sera ch’iniziava ad invaghirsi di quelle mie visioni. Le avevo offerto il braccio di fronte all’insegna di quel bar e lei aveva accettato quella desueta cavalleria con un lieve sorriso, forse compiaciuta per una galanteria che in quel tempo gnomo era oltre modo esagerata e fuori luogo ma che m’era venuta spontanea ed ancora a domandarmi cosa realmente fosse successo su quella corriera, perché qualcosa di magico e per me inusuale, era accaduto.

 

Uno squillo arrestò l’annuvolata presenza di quei groppi, poi un altro e un altro ancora a dimostrare ch’era reale e vero e non il frutto della mia immaginazione. Sentii uno spasmo ed il protendersi d’una vertigine minacciare il mio petto. Per quanto potessi aver atteso il verificarsi di quell’evento e per quanto mi fossi ripetuto ch’era una speranza vana, non ero pronto.

 

Avviene che tremi e ti fai mille domande in quegli istanti che t’alzi ed avanzi verso l’apparecchio che non cessa di squillare e dentro di te già ti sostieni e ti conforti sapendo che potresti rimanere deluso da quei trilli che rimbombano come acuti botti. All’altro capo del filo su cui corrono i tuoi desideri  avrebbe potuto esserci chiunque e non chi tu speravi. Eppure un presentimento m’empiva l’animo. Non sapevo cosa avessi percepito di tanto intenso ed appassionante in quei suoi sguardi. Sono sensazioni labili, impalpabili ed indecifrabili.

Forse soltanto un fremito che solo lontanamente m’apparteneva ma che per qualche incomprensibile ragione, doveva essere stato reciproco. Di qualsiasi cosa si trattasse, foss’anche il nonnulla d’un illusione, ne avevo un bisogno disperato che talvolta sono proprio quelle impressioni arcane e misteriose che ci sostengono lungo quell’onda anomala ch’è l’esistenza. Presi la cornetta del telefono, l’alzai e risposi.  Quello ch’era stato soltanto un larvato e desiderato presentimento, squarciò il ristretto orizzonte di quella stanza.

 

Ti disturbo? disse la sua voce svuotando l’annuvolata presenza quegli aridi groppi che avevano ruotato attorno a quell’immota attesa sospesa ed era in quella inusuale domanda una cortesia elegante e maliziosa che lungo la curva di quel filo mi riportava nell’interno di quel bar. E come poteva essere possibile che ciò che avevi tanto atteso arrecasse un qualsivoglia incomodo. Non disturbava affatto.

 

Hai del tempo da dedicarmi? Ne avevo a fiumi e scorreva palpitando nelle mie vene ed ancora una volta quella straordinaria sensazione enigmatica di conoscerla da sempre. Le dissi quello ch’era assolutamente vero. Ne avevo quanto ne voleva e se fosse stato necessario anche molto di più. Una risata argentina e leggera risuonò in quell’apparecchio, parendo che il riverbero di quel suono avesse riempito tutta la stanza trapassando le imposte chiuse della finestra fin lungo la linea sconnessa e diseguale del marciapiede e che tutte le ciane del borgo l’avessero udito.

Mi chiese se avevo piacere d’incontrarla ancora e la mia  risposta fu banale ed ovvia. Mi diede l’indirizzo, spiegandomi dove si trovasse. Conoscevo il posto e la via, nei pressi d’una stazione dei treni senile ed obsoleta per quanto ancora in funzione e glielo dissi. Questa mia conoscenza del luogo non la convinse che mi fece ripetere pedissequamente le sue istruzioni volendo essere certa ch’avessi compreso e dentro di me sorrisi per quella solerzia che non era necessaria. Se anche avessi avuto un dubbio che non avevo, mi sarei comunque presentato a quell’incontro con una affascinante sconosciuta che solleticava il mio orgoglio maschile.

 

Alle dieci, disse. Diedi un’occhiata all’orologio e confermai la mia disponibilità. Alle dieci. Era già tornato al suo silenzio quell’apparecchio quando m’avvidi con una punta di stupito disappunto che non avevo avuto modo di domandarle come si chiamava. Quel nome sconosciuto continuando ad aleggiare tra di noi come un’incognita. Nemmeno lei aveva però ritenuto necessario dirmelo, pensai e questo nonostante le sue accurate informazioni per trovarla. Forse tutta la palazzina del numero civico che m’aveva fornito le apparteneva ed aveva preso quella corriera per un indeterminato motivo similare al mio ch’era ciò che ci aveva fatto cercare, riconoscere ed avvicinare tra l’anonima moltitudine di volti ch’affollava quel mezzo. In quel momento mi parve una spiegazione plausibile.

 

Di sotto una galoppante rincorsa sghemba di vivaci lazzi per il porfido antico e consunto del selciato. Di rumorosi scalpiti lo percuote, passa e s’allontana. I soliti ragazzi scalmanati, pensai con una certa indulgenza. Sull’agenda cercai il numero di telefono d’un anziano tassista che conoscevo per essermi giovato altre volte del suo cortese e discreto servizio. Lo chiamai. Era disponibile e ci accordammo sul compenso e sull’orario.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Rimasi sorpreso. Non poteva abitare in quell’edificio inconsistente. Il canuto tassista aveva arrestato la sua lustra vettura all’altezza d’una piccola pensione malandata dall’aspetto appena dignitoso e s’era volto verso di me porgendomi la sorniona malizia d’un sorriso che voleva ironicamente significare – signor conte siamo arrivati a destinazione. Condividendo uno stesso segreto non avevo bisogno di dargli spiegazioni, né lui me ne avrebbe chieste e conoscendo la sua naturale propensione al denaro, avevo aggiunto una cospicua mancia a quanto pattuito, cosa che l’avrebbe ben disposto per la prossima occasione e congedandolo con una amichevole pacca sulle spalle ero sceso dal suo tassì. Più volte durante quel tragitto nel folle e ronzante mormorio provinciale di quella cittadina che fin troppo presto si sarebbe spento nell’ipocrisia notturna, m’ero interrogato su quel chimerico incontro e di come l’ignoto poema dell’esistenza possa sorprenderci gettando ponti verso pallide speranze anche quando il nostro sentire s’è da tempo fatto sordo a quei richiami e così, nel battito giallognolo dei fanali che minacciavano appena l’ombra di quel portone bugnato e verde, il muto dialogo dei dubbi s’affacciava nel pelago dei miei pensieri.

 

Mi ritrovai avviato in quell’infecondo andare e rivenire per quel breve tratto di marciapiede malamente illuminato, dialogando con un antico fanciullo timido ed insicuro sulla decisione da prendere. Di lontananza il zampillare vano e costante d’una fontanella che disperdeva le sue acque limpide e cristalline nelle rete fognaria. Quell’anticipo sull’ora convenuta scandito dal rumore dei miei passi sul selciato di quella  strada deserta e già assorta nel lungo inganno della notte. Dovevo attendere in strada o entrare? Forse tornare indietro. E se fossi entrato, di chi dovevo chiedere? E le mie domande che restano senza una risposta nella nostalgia delle sensazioni provocate da quegli sguardi. Non poteva appartenerle quella pensione che le certezze non appartengono alle vibranti evanescenze che corrono lungo i fili telefonici ed in quelle ramate vene vacillano e si confondono nell’opalina irrealtà di quella situazione ch’andava consumando i secondi ed i minuti oltre quel limite stabilito. Mi resi conto che non c’erano cabine telefoniche nelle vicinanze. Non avevo modo di richiamare il tassì. Guardai l’orologio. In definitiva non avevo nulla da perdere se non un sogno, anche se sono proprio questi a rendere sopportabili i voli dell’esistenza. Spinsi il portone e questo era solo accostato come se stesse aspettando quella mia decisione. Entrai in quella pensione.

 

Un saloncino fungeva da portineria. Su di un lato un bancone dal piano arcuato com’avesse dovuto sopportare da solo tutto il peso di quell’attività che a prima vista non pareva dovesse essere prospera. Dinnanzi la scala che doveva condurre alle stanze. Erano lungo quelle pareti rivestite d’una improbabile carta verde cinerino delle appliques a forma di conchiglia con la farsesca pretesa di creare misteriosi giochi di penombre. Un’antica matrona sgualcita ed opulenta sollevò lo sguardo dalla rivista che stava sfogliando adagiata nell’unica poltrona di quel salotto. Tremava tra le pieghe dell’abito la mia mano scossa da quel fantasma occulto che t’afferra proprio quando ti vorresti arbitro delle tue volontà. Non sapevo che dire. Non sapevo cosa fare. Ma il segreto suono dei miei pensieri dovette violare l’ozio corposo di quella donna ch’abbandonata la rivista s’alzò con uno sforzo dirigendosi verso il bancone. Deve darmi un documento. È la legge, disse con una voce atona e inadeguata alla sua mole. Non so perché le diedi il passaporto ch’avevo sempre addosso. D’altronde erano svariate le cose che in quel momento sfuggivano alla mia comprensione, perfino quel tremore che non m’accadeva dai lontani tempo del liceo.

 

Prese in mano quel documento rigirandolo più volte senza aprirlo. Deve partire? Può darsi, risposi tentando d’apparire rilassato. Mi diede una chiave indicandomi le scale. Ultimo piano, è già tutto pagato, disse e la mano sepolta nella mia tasca si irrigidì. Non dovete preoccuparvi di nulla. Le altre stanze sono tutte vuote, aggiunse sibillina, gli occhi porcini affondati nell’adipe delle palpebre.

 

L’ultimo piano era soltanto il secondo che pur proseguendo verso un ulteriore livello la scala moriva sbarrata da una parete dov’era poggiato un antiquato calorifero bombato, di ghisa, con i tubi discendenti in mostra. V’erano solo due porte lungo il corridoio tappezzato d’un rosa smunto che poteva ben dirsi antico. Su d’una di queste lo stesso numero che penzolava dalla chiave. Era modesto l’arredamento della stanza. Un letto matrimoniale con le spalliere in finto ferro battuto a tortiglioni, i due comodini regolamentari ed una sedia impagliata posta proprio sotto la finestra, chiusa. Neppure un armadio. Un laconico foglietto dattiloscritto fermato con le puntine informava che il bagno era l’altra porta ch’avevo veduto sul pianerottolo. I caratteri erano quelli d’una Olivetti. Li riconobbi per averne posseduta una, finita sui banchi d’un rigattiere in uno di quei momenti di necessità.

 

Accesi l’unico abat-jour ch’era su uno dei comodini smorzando la luce del lampadario. Non potevo fare di più per creare un’atmosfera. Mi sdraiai sul letto, le mani incrociate dietro la nuca, gli occhi fissi sulla porta. Non so di quale ampiezza potesse essere stato l’arco temporale trascorso in quell’attesa, non mi venne in mente di guardare l’orologio, ma certamente fu abbastanza da farmi credere ad una macchinosa burla. Avevo deciso di andarmene che tutta quella situazione era assurda ed irreale, quando quella dimessa maniglia stampata senza pretese in migliaia d’esemplari tutti ugualmente poco appariscenti, molto lentamente si mosse, abbassandosi con una tale lungaggine da farmi pensare che quel movimento rallentato fosse dovuto soltanto alla mia immaginazione. Invece la porta di quella modesta stanza senza storia si dischiuse lungo i bordi delle mie protese speranze.

 

La lucente grana dei nostri occhi tornando ad incontrarsi in quel palpito misterioso e vibrante ch’era quella complice illusione empatica di conoscersi e credo ch’avvenne proprio in quel momento che i minuti e le ore arrestassero il loro normale corso per proiettarsi in un’altra dimensione dove il tempo perdeva completamente il suo significato, sospendendosi in quello spazio che rinchiudeva le forme dei nostri corpi.

 

Indossava un semplice e castigato abito beige, di quelli che sembrano una cosa da nulla e costano un capitale, lungo appena al di sopra delle ginocchia e stivali dal tacco non troppo slanciato. Unico e delizioso orpello, una lunga sciarpa, morbida e vaporosa, d’un tono oltre il colore del vestito che l’avvolgeva mollemente ricadendo libera e pendula. Non so come sia avvenuto, perché non ricordo d’essermi alzato dal letto ma ero in piedi dinnanzi alla sua figura mentre alle sue spalle richiudeva quella porta che ci avrebbe escluso dal folle ed inutile divenire del mondo esterno, l’uno affacciato nel silenzioso sguardo dell’altra. 0 (2)

 

Le svolsi la sciarpa attorno al teso slancio del collo e le nostre dischiuse bocche si gettarono l’una nell’altra cercando di saziarsi a vicenda dei rispettivi e diversi sapori ed il suo era piacevole, tiepido e fruttato, dolce ed intenso come la passione ch’ardente divorava il mio essere. Le mie labbra che percorrono la sua gola declinando lungo quell’andana che tra seriche e lunghe ciocche ricciolute adornava quanto lo sguardo aveva già solcato quella mattinata. Le dita che frementi cercano la minuscola linguetta della lampo. La trovano. L’afferrano e quegli uniti lembi uno dall’altro separano sgusciandola da quel vestito che le scivola di dosso ammucchiandosi a terra come un cencio e sopra a quello il suo corpo straniero, ambrato e snello. A sua volta mi sveste e mi denuda, facendo tappeto dei nostri abiti sulle nude piastrelle spoglie di quella stanza fin quando le nostre mani non incontrano più ostacoli nel carezzare e strofinare l’ignude nostre carni vogliose del contatto di quelle effusioni che le fanno brividire d’un’emozione intensa che pare impreziosire l’indigenza di quell’ambiente. Mi rasentano le sue labbra umide oltre la ruvida curva del mento e s’attarda il suo volto a sfiorare i ciuffi a tratti canuti del mio busto che paiono scoperti fili elettrici e vellica la sua bocca ora una ora l’altra delle carnose sferule che come le sue sono dure e turgide, cariche di quella tensione. Ancora discendendo i baci di quella bocca fin nell’orbicolare solco, lambendo quella primeva cicatrice che ci dà alla vita come se quella sua lingua potesse entrarvi ad esplorare quanto avevo dentro, ch’oramai era prona, inginocchiata ai miei piedi tra le nostre spoglie disfatte e sparse a terra. E quello, turgido e paonazzo di fronte al suo viso, inebriato dall’impalpabile profumo di quelle sensazioni.

Erano scintillanti i sussurri di quel luogo ch’aveva mutato il suo aspetto come fosse altrove, lontano, su di un altro pianeta e quel palpito d’essere ancora vivo che risale dal profondo e quelle spavalde iridi gemelle che lucenti s’incastonavano nell’abbandonato languore del mio sguardo perso in quel suo tenermi per bocca. Tiepido, carezzevole, lascivo ed impudico quell’umido abbraccio suggente ch’andava e veniva, sfumava e riappariva tra lampi di gemme scarlatte che per tutta la sua estensione lo percorrevano. Un’equorea vertigine che mi faceva tremare le gambe, risucchiato com’ero in quel carnale vortice.

 

Affondai le mani in quella voluminosa capigliatura riccioluta inseguendo con il bacino la marea altalenante di quel languido gioco sorbente. Fu lei a distaccarsi da quel mio che io sarei rimasto in quella postura, tremante e teso, finché non mi fossi riverso tutti in lei che mai alcuna me l’aveva fatto con tanto delicato ardore. Si liberò degli stivali senza privarsi della seduzione delle calze ch’attorno alle lunghe gambe tessevano la loro velata e serica trama sostenendosi sole con il merletto della fascia elastica che segnava quel limite oltre il quale splendeva l’ambrato colore del suo essere d’ogni altra veste spoglia e s’adagiò su quel letto rendendolo prezioso. M’avvicinai a quelle sue forme sensualmente dardeggiate dall’ombre morbide e medusee che trasparivano dalla cinerea lampada sul comodino ed ero grottesco nella mia perentoria nudità, il mio rigonfio di sangue, proteso e grosso agoniando di poter trafiggere senza sosta le sue carni teneramente abbandonate su quelle coltri neppure disfatte.

 

Di nuovo, impertinente e monella con una luce voluttuosa in quei suoi occhi da bambola, l’afferrò coprendolo di baci, manipolando dolcemente quanto v’era sotto e facendolo sparire tra le sue labbra che carnose ed impudiche ricoprivano il taglio dei denti non facendomeli sentire. Era meravigliosa, ancora una volta, la sensazione di sentirsi serrato in quella gola che carnale ed umida mi possedeva sentendolo strusciare contro il duro del suo palato, solleticato dalla lingua ogni qual volta quella mia punta nuda le arrivava a tiro. Credevo d’impazzire per quel godimento che si faceva quasi insopportabile, sospirando ingordo e passivo nel poderoso imperio di quel languente andirivieni, le mie mani scompigliando quelle testa riccioluta che s’avvicinava e s’allontanava dal mio inguine.

 

Liscio, teso e ricoperto di saliva ne sgusciò fuori a malincuore e lei m’attirò a sé ed io le fui addosso con il desiderio ed una foga che non m’apparteneva ch’anche in quello non mi riconoscevo come fossi un altro. Un altro che riviveva un lontano e trepidante ricordo. Con vorace passione cercavo quelle labbra ch’appena prima m’avevano contenuto e quale voluttà nell’esplorare quella bocca che spudorata s’offriva palpitante, umida, morbida e sensuale a quell’intima esplorazione, le lingue che senza tregua s’inseguivano avvicendandosi nel varcare ora dell’uno ora dell’altra l’eburnea linea che nostri distinti esseri demarcava l’estremo limite sempre più labile, incerto e vago.000000000000 (3) Era il lascito del mio barbaro sapore che, inconsciamente, vi cercavo, inebriandomi fino alla follia del suo che anni ed anni infecondi e vuoti si fondevano in quel bacio. Oltre i dischiusi cancelli delle memoria a tratti s’affacciavano sbiadite e avventurose immagini del mio sogno umano, evanescenti e opache che dal quel lontano fondo parevano prendersi gioco di me. Un sussulto. Nudo, ambrato, scattante ed agile è il suo corpo che d’un sol tratto quei fantasmi deridenti scaccia. E retti, duri come minuscoli falli turriti gli aggrottati pistilli dei suoi seni che avidi e frementi percorrevano la fitta rete di canali dei miei palmi vellicandoli di lussuriose sensazioni, azioni tattili che fin nel ventre riecheggiavano di contratti spasmi.

 

È irrefrenabile il desiderio di ghermire quelle mute e prugnose sfingi corrucciate e fino allo sfinimento lambirle, sfiorarle, suggerle, farle mie, possederle e divorarle, avido ed ingenuo di quella fantastica conquista che non poteva in alcun modo appartenermi, ma questo il mio virile orgoglio non poteva in alcun modo comprenderlo. Ora l’uno aggrottato nocciolo famelico ed ingordo le succhiavo, ora l’altro cincischiavo trattenendolo stretto tra le labbra, ora le risucchiavo l’intera a coppa come fosse possibile ingoiarla come un’asseta idrovora e l’arcana posa languente del suo sensuale, molle e morbido abbandono di barbara regina dei piaceri sterili. La luce di quell’unico abat-jour che si fondeva con i sussulti del suo essere così crudo e selvaggio. La mia mano che ricerca il suo volto, le sue labbra umide tra le mie dita che una ne scelgono, lambono e con una forza succhiano. Un rantolante gemito e le sue mani che d’un tratto un tratto si serrano con violenza sulla mia testa. Il curvato arco della schiena che si protende. L’affusolate dita contratte tra i miei capelli.

 

Era l’intensa freschezza del suo odore che m’aveva velato i sensi perdendone il controllo. Nella risucchiante frenesia di quel vorticoso turbine labiale d’irrefrenata passione per quei suoi meravigliosi piccioli le avevano morso uno di quei carnali ed indifesi frutti che con foga la mia bocca le stava tormentando. Ancora. Ancora procuba e languente tenendomi stretto al petto su quel letto che nella vaga gravezza della stanza s’era fatto maestoso di broccati e damaschi. Nei persi meandri della mia mente rapita dal suo corpo un bizantino invito d’una atterrente voluttà dolcemente barbara, selvaggia e perversa. Tornai a morderle quella leziosa cuspide. La lingua guizzante su quella turgida pallottola di bruna carne quasi ne cercasse una falla dove poter penetrare sull’ansimante onda dei suoi spasmodici sussulti. Ed ancora la sfioro, la lascio, la tiro e la riprendo, l’altra mia mano che ghermisce avida di possesso la coppa sorella ed il mio innalzato e duro che tende la pelle attorno come se da questa ne volesse uscire solo. Soffocò un urlo inarcando le reni e scotendo i riccioli ch’io credendo d’avere esagerato m’arrestai.

 

No, continua! Fece ansimando per il terribile piacere di quei morsi ai suoi preziosi e delicati ninnoli. Succhia e mordi invocarono le sue labbra ed era il tremore d’un lamento in quella notte che passava e si ritraeva ora morbida ed ora tesa. Ed ancora glieli addento, scivolando la mia mano su quel corpo scosso ed inarcato a violare l’umido grembo che tra le mie dita langue, urla e geme dischiuso tra serici riccioli brillanti.

 

Di repente le sue dita lunghe, sottili e fragili m’afferrarono con forza per i capelli distogliendomi da quell’uffizio che tanto sembrava aggradarle, la grana del suo sguardo ricolmo di languore riversa nei miei occhi sorpresi.

 

Apri il comodino, fece decisa con una voce che non tradiva né i palpiti, né l’emozioni di poco prima. Adesso? Mi ritrovai a dirle sconcertato per quell’interruzione chiedendomi cosa le potesse servire di così urgente in quel momento. Adesso, confermò annuendo con il capo.

 

A fatica mi distaccai dal dolce inferno di quel suo corpo ma credo che se anche m’avesse chiesto di precipitarmi in strada a prenderle un caffè o quant’altro, non le avrei rifiutato la cortesia, catturato com’ero dalla forte emanazione della sua presenza. Non so cosa m’aspettassi realmente di trovarvi che in quel momento pensavo soltanto a poter portare a termine quello ch’avevamo iniziato, ma quanto era ordinatamente riposto in quell’umile stipetto di circostanza fece diventare il mio sangue più caldo e denso di quanto già non fosse e nonostante mi sforzassi non riuscii a rimanere impassibile, ed ancora oggi ricordo la pervadente agitazione che mi colse. La guardai e lei fissò solo per un breve istante le lunghe ciglia del suo sguardo nell’attonita incertezza del mio volto, affrettandosi a dissipare ogni mio possibile dubbio sull’uso che dovevo farne.

 

Prendile e legami. E lo disse con voce tranquilla, leggera come si trattasse d’un qualcosa d’assolutamente naturale. Prendile e legami ed un seducente fascino latente che si sprigiona da quelle semplici e viziose parole, innocenti sulle sue labbra com’avesse richiesto un casto bacio ed il solo pensiero di poter disporre di quel suo corpo legato che mi pervade d’un delizioso brivido di piacere osceno e perverso che lungo la schiena risale brulicante ed elettrico irrigidendo le mie reni. Un pungente languore che se si fosse protratto ancora si sarebbe mutato in fastidioso dolore.

 

Legami e quell’eco che pare risuonare in ogni dove pulsando nel battito frenetico che impazzito scorre nelle mie vene gonfiandole come se il sangue fosse piombo fuso e l’esistenza del mondo che pare cosa diversa dallo ieri.

 

Legami. Ed ancora oggi risento il suono di quella sua voce che nelle lunghe notti insonni tormenta i miei ricordi con quell’accorata supplica alla quale è impossibile sottrarsi. Le presi il polso ed era perfetto. Piccolo, fragile ed indifeso tra le mie mani avide d’un’impietosa lussuria, ardente del desiderio d’accontentarla. Lentamente e godendo di quella piacevole immagine, vi avvolsi attorno più volte una delle corde ch’erano nello stipetto, cingendolo tra le spire di quel falotico serpente che l’avrebbe intimamente legata a me in un modo che, in quel momento, non potevo comprendere.

 

Aspetta, mi disse avvicinandosi al mio volto e baciandomi con l’ardente passione d’un tenero addio ed il suo sapore era dolce come un frutto maturo. Pensai ch’avesse cambiato idea ma era lucente la voluttà dei suoi occhi per quello che le andavo facendo. Si volse, offrendosi prona al fragile guscio delle mie galoppanti fantasie. Distese le braccia e divaricò le gambe ch’era in quel modo che voleva essere legata ed io mi sentii rabbrividire dalla testa ai piedi, virilmente impaziente di possederla in tale ed impensabile maniera. Un inebriante stimolo ch’andava crescendo nel mentre le assicuravo il polso già guarnito ad una delle sbarre del letto, proteso e teso nella posizione che lei stessa aveva assunto. Girai attorno a quel talamo di pervertente lussuria che stavo allestendo con il paradisiaco sogno del suo corpo disponibile e nudo per fare altrettanto con l’altro braccio che carezzai appena con la punta dei polpastrelli sentendolo vibrare e ritrarsi per quel leggero sfioramento che vellicava la sua pelle facendola fiorire delle minuscole erezioni dei suoi pori. Glielo imprigionai con un estremo piacere nelle compiacenti volute aspre e ruvide d’un’altra fune, ch’erano quattro in tutto, una per ognuna delle sue membra.

 

Feci scorrere il canapo attorno ad uno degli attorcigliati riccioli ch’adornavano la spalliera, le sue braccia a questa strettamente ammarrate, non potendo più muoversi. Una bruciante larva percorreva le mie vene ed il fremito di quella concupiscenza gonfiava l’estremità del mio strumento che sentivo colmo fino al traboccare. Le presi le caviglie ch’erano seriche nelle calze strette e fu elettrizzante quel contatto mentre gliele legavo vincolandole agli estremi ferri di quel letto, divaricandole le gambe che così aperte erano impossibilitate a richiudersi.

 

Allora mi soffermai a contemplare quell’impudica e sconvolgente immagine bizantina del suo consegnarsi crocefissa e spoglia ad uno sconosciuto incontrato per caso che in quel momento avrebbe potuto farle ciò che voleva. Ero avvinto dal fascino perverso del dettaglio di quei delittuosi cordoni che pendevano come sinistre decorazioni dai suoi arti impediti a qualsivoglia gesto. Una vittima passiva ed inerme. L’oscuro velo delle calze che pareva indicare la via ai suoi riccioli arrotolati in minuscoli boccoli luccicanti. La deliziosa piega delle natiche che si poggiavano sulle cosce in un invitante e duplice sorriso seducente che mostrava la disarmata fessa del loro santuario. Ed era ghiotta quella carne ch’ospitava un piccolo giglio rosso, vivo e fremente in attesa del suo ricercato martirio.

 

Eretto, teso e fino all’eccesso duro, saziavo il mio sguardo di quell’intimo ed inatteso spettacolo carnale così lascivamente profferto. Le fui accanto ardendo dal desiderio d’assaporare la serica nudità edonistica delle sue sinuose e sensuali forme dispiegate tra i costretti vincoli di quelle corde ch’avvinghiavano le sue membra in quello stato vittimale che già in sé era l’estasi d’ogni chimerica fantasia virile. La sfioro, appena, percorrendo il suo corpo con la mistica reverenza d’un fedele che varca il sagrato d’una cattedrale, nel timore che d’improvviso, quello che pareva un sogno, potesse dissolversi e sotto le mie dita sento la sua pelle liscia e morbida che si rattrae per quel lieve e quasi inconsistente contatto. Freme evibra, scossa da tremiti per quel solleticante andare della mia mano che l’assale. E questo è delizioso. Geme e lancia delicati urletti ed io, preda di quel potere che tanto benignamente m’aveva concesso, provo un estremo e profondo piacere per quel suo non potersi sottrarre. Le carezzo la coscia, soda e piena, soffermandomi nella sfacciata curva del suo compiaciuto sorridermi ed oltre, nella dolce impronta lubrica della calza costeggiando lieve quella carne. Sfioro l’incavo nell’inizio delle gamba che s’irrigidisce tutta allungandomi delicatamente fin nei solchi della fune, crudele e ruvida cavigliera che piacente fa impazzire i sensi protesi e tesi in quel gioco di lussuria ricolmo. E paiono quelle pastoie le nervature d’un ludico strumento vivo e carnale che le mie mani possono manovrare a piacere. Non pago di quel suo dimenato fremere che pare il frullo d’un uccellino in trappola, le sfioro la pianta del piede, godendo del tormento che quei delicati sfregamenti le provocano ed ancora di più s’agita, scuote i riccioli affondati nel solco dei due cuscini per quell’insopportabile solleticamento. Le minuscole dita che si divaricano e si contraggono nella velata trama trasparente che le contiene, il mio estremo essere gonfio e spasmodicamente turgido che seppure ancora libero pare costretto in una dolorosa morsa.

 

Allora con le dita dischiusi il morbido solco delle sue sontuose rotondità che cedettero senza opporsi a quell’introspezione ch’esponeva al mio famelico sguardo quanto di più privato una donna possiede. Il suo corrugato bocciolo indifeso mostrandosi senza pudori. Più sotto, imbrigliati nei soffici riccioli del suo grembo, la miriade di cristalli del suo piacere che grondavano a fiotti bagnando il letto. La mia bocca scivolò nel mezzo di quello spacco, la lingua sfiorandone gli orli e frugandone i recessi, bevendo quel suo succo,sentendo nelle narici il suo odore più nascosto e profondo, blandendo il suo vermiglio frutto tumescente e la sua ancor più intima e corrucciata boccola.

 

Sospirava e roca gemeva, vegliando i suoi denti sulle acute grida ch’a tratti le sfuggivano, in deliquio per l’intenso piacere provocato dal dardeggiante tributo lambente i suoi duplici recessi. In quella lussuriosa regia da lei stessa creata s’inarcava e si torceva per quanto le potevano concedere le corde che la trattenevano soggiogata al mio cupido beccheggio e questa sua costrizione portava inevitabilmente la mia eccitazione ad un parossismo che non conoscevo. Torreggiavo sul quel corpo nudo, imbrigliato ed indifeso non potendo più attendere oltre. Tra le sue lunghe gambe aperte e divaricate  ero pronto a trafiggere l’intimità di quel suo meraviglioso e grondante fiore carnale.

 

Dovette intuire la mia deflorante intenzione d’introdurmi in lei senz’altri piacevoli e lascivi indugi. Erse l’ebano di quei riccioli scomposti girandosi verso di me senza potermi vedere, incantevole nel suo profilo di rara medaglia preziosa. Aspetta, mormorò. Aspetta.

 

Attendere ancora? No, non potevo. Fremevo d’una lavica concupiscenza che dovevo assolutamente sfogare e mi gettai su di lei con l’intenzione di saziarmi delle sua carne. Stavo per infilarmi in quella sua tumida corolla dischiusa, quando mi sorprese ancora lasciandomi interdetto, tanto che credetti di non aver compreso quello che le sue labbra in un dire innocente ed altrettanto sfrontato mi chiedevano di farle.

 

Frustami, disse come se quell’idea violenta e piena fosse soltanto il lieve ed oscuro alito d’un vento lontano dai vaghi sapori gotici.

 

frustami disseFrustami disse ed io che m’arresto di fronte a quella cruda e scussa affermazione che mi scuote nel profondo esplodendo lungo la colonna ch’infiammata s’ergeva in me vibrante e tesa appena fuori dal suo invitante vestibolo, anelando d’affondare in quelle tumide carni accoglienti e bagnate. L’ero addosso. Vedevo le sue braccia alzate nelle resa e sottomesse al vizioso giogo del cordame che corrompeva qualsiasi ipotesi di dolcezza con il suo inquietante distendersi tra l’implacabile crudezza dei ferri ch’attorcigliati richiamavano alla mente spietate fantasie di medievali segrete grondanti degenerati supplizi, atroci e sensuali e, per un istante, credetti che senza fare nulla le avrei riversato addosso il mio liquido genitale disperdendolo inutilmente tre le sue cosce.

 

Dammele con la cintura dei tuoi pantaloni. La pensione è vuota e nessuno potrà sentirci. Non potevo credere a quello ch’avevo appena udito dispiegarsi tra le sue carnose labbra. Un desiderio sensuale, determinato e violento che travalicava ogni mia possibile immaginazione. Scesi da quel letto tremando per la forte emozione, gli occhi spalancati ed il cuore che nel petto batteva e ribatteva impazzito. Non l’era sufficiente la già insidiosa lussuria dell’essersi fatta legare. Andava oltre ed ancora credetti che quanto stava accadendo tra le pareti di quella pensione non fosse possibile e che fossi preda d’una allucinazione dovuta ad una forte ed improvvisa febbre. Mi toccai la fronte ma era la parte più fresca del mio corpo e tutto attorno era reale e non svaniva affatto.Vidi la sua testa rivolta e protesa su di un lato che m’osservava nel mentre che raccoglievo le braghe e facevo scorrere la cinghia lungo tutti i passanti ed un voluttuoso ardore carnale e luccicante era sospeso in quel suo sguardo.

 

Vidi fremere la porpora della sua bocca socchiusa e scarlatta non appena la correggia ch’aveva sostenuto i miei pantaloni penzolò libera e completamente sfoderata nella mia mano con la sua rotonda punta pronta e disponibile ad essere usata sulla sua carne liscia e soda.

 

Vidi la sua piccola lingua rosata passare e ripassare tra le labbra, inumidendole come se gustasse quel sibaritico preludio d’attesa.

 

M’avvicinai. In silenzio. Lentamente, passo dopo passo, il freddo delle maioliche sotto la pianta nuda dei piedi, contemplando il fascino dell’estetica visione di quel suo corpo morbido, tiepido e desiderabile che stava facendomi perdere il senno. Ed ero galvanizzato da quella solleticante idea di poterla prendere a frustate con il suo deliberato consenso. Il cuoio che strisciava sul pavimento in quel mio solenne andare e quando fui vicino a quell’arrendevole corpo prigioniero mi colse una deliziosa voglia, trepida e folle, d’assaporare ogni possibile ombra di quel crudele piacere che la mia cintura le avrebbe somministrato e la trattenni tra le mie membra frementi per quel desiderio che non avevo alcuna intenzione di farle troppo male anche se gliene avrei potuto fare quanto ne volevo che le non avrebbe avuto alcun modo d’opporsi. Levai nell’alto la cinghia che flessuosa tagliò quell’aria ferma, densa e statica, carica d’un’indefinibile elettricità sospesa, cogliendo in quel proteso ed atroce gesto tutta la sua pervertente fascinazione d’atavico e primordiale potere su quella creatura inerme e distesa, parendomi quel serpeggiante pellame che fosse cosa viva, la diretta estensione della mia virilità eretta e cupida. E quanta terrificante delizia provai per quel frusciante sibilo orbitante nell’assorto silenzio di quelle mura ed il piacere dell’inerte attesa delle sue deposte terga aspettando immobili d’essere violate dall’ardente brama di quella saettante striscia d’erto pellame che percorreva quella breve distanza con la cieca voglia d’abbattersi su quella fresca carne che colpita di piatto sobbalzò e gemette d’un modulato e sospirato lamento come se dentro di lei fosse affondato tutto intero il mio turgido vigore e quale fatale emozione per quel primo e sonoro schiocco, acuto e limpido come un secco schiaffo in pieno viso.

 

Era inevitabile, il gorgo di quella lussuria attirandomi nel sardonico parossismo di quello sferzante deliquio ch’era tanto piacevole in quel suo dilagare per la mia mente che cercai con tutte le mie forze d’abbandonarmi a quel perverso e vizioso percorso che coinvolgeva tutti i sensi. Alzai la cinta che di nuovo ci unì in quella distanza, vibrando il cuoio vivace ed articolato nella mia mano ferma, la sua pungente rapsodia di dolore abbattendosi nuovamente sulla sua morbida e rotonda groppa e quanta voluttà intensa e godente per l’onda rotta e cupa del suo serrato gemere tra le labbra nel fatale spazio ch’intervallava una cinghiata dall’ansioso distendersi dell’altra e di volta in volta ne aumentai leggermente il vigore con l’intenzione di darle modo d’avere tutto il tempo per rimpiangere l’eccentrica imprudenza di quella bizantina passione che a lei piacendo andava conquistando tutto il mio essere con una indicibile voluttà, soggiogato com’ero dall’accattivante fascino che sprigionava l’ardente e rossastra fioritura che la cintura pareva depositare ad ogni colpo su quella pelle come se fosse in essa contenuta sentendomi sospeso tra cielo e terra per quel piacere divino al quale stavo prendendo parte.

 

Più forte! Gridarono le sue labbra appena soffocate dalle coltri. Fammi male.

 

Violentemente risentito nel mio orgoglio per quelle sue parole che non poteva essere lei, legata, prona e su quel letto spalancata a decidere della sua sorte. Mi sentii avvampare. Esaltato e borioso il sangue iniziò a pulsare battendo nelle vene gonfie del collo, pompando una marea rovente che si riversò nella cinghia ch’impugnavo. La sferzai sfogando una rabbiosa passione che mi bruciava dentro e quale meraviglioso piacere nello spasmodico agitarsi delle sue membra imprigionate, il tendersi furioso delle corde che vibravano, la marcata curva della schiena che s’inarca tra le braccia appese la sciando scorgere per un breve istante il mirabile richiamo della punta del seno, i pugni serrati per l’acuto, ripetuto e costante frangersi del dolore ed il rapido dimenarsi dei piedi ch’avvolti nelle calze parevano deliziose farfalle intrappolate per l’ali e le cosce contratte, l’intenso e fulgido rossore dei fianchi e le acute note delle sue prolungate e trepide grida ch’invece di placare quel desiderio d’assistere alla sua sofferenza alimentavano senza sosta la fiamma che mi divorava. Fremevo d’un’insana passione per l’estasiante musicalità di barbari e lancinanti schiocchi che danzavano sulla sua pelle facendole sobbalzare le terga ad ogni schiantarsi dell’estremo ed aguzzo lembo della cinghia che le costringeva ad inseguire fino in fondo il suo crudele e segnante tragitto mantenendole sollevate nel dolorante spasmo ch’a tratti lasciava intravedere l’umido mondo carnoso corallo della sua imbronciata conchiglia, guarnita di piacenti e serici riccioli sconvolti e godenti. Era il mio corpo e l’animo tutto ricolmo della crescente bramosia libidinosa d’una pervadente smania vogliosa e cupida, fortemente avida di quella carnale lussuria che come una mirabile visione mi si componeva dinnanzi fremendo ed agitandosi disperata nella trattenuta trama che la vincolava a quella esaltante fustigazione che ligiava impietosamente le sue divaricate cosce. Mi parve che un’invisibile mano m’afferrasse il ventre stringendolo forte tra le dita, seguendo l’onanico ritmo intenso di quelle cinghiate. Nel mio cervello un’improvvisa vertigine per quella indicibile libidine che traboccava da quel supplizio. Godevo d’un piacere vero ed intenso per gli urlanti gemiti di quelle accorate grida mescolate alla rotonda e limpida sonorità d’ogni frustata che le dispensavo. Godevo come se stessi penetrando nelle sue madide carni e qualche goccia limpida e cristallina sgorgò inaspettatamente dalla mia inalberata colonna.

 

Nudo. Bestiale in piedi a lato del letto, le gambe appena divaricate come la statua d’un improbabile guerriero che nella mano ghermiva la cinta, m’ergevo su di lei come l’unica divinità pagana del suo presente, eppure, per quanto possa apparire fuori luogo, solo oggi mi rendo conto che quelle funi che l’imbrigliavano i polsi e la mantenevano spalancata in quell’inquietante gioco, quelle funi trattenevano me dal riversarmi oltre quell’orlo frastagliato e sconnesso che lei aveva così abilmente demarcato per quel suo piacere gotico e questa mia incapacità a lasciarmi completamente andare, lei doveva averla compresa fin dal primo istante in cui i nostri occhi s’erano intrecciati. Ben lungi dall’essere stato un placato sollievo, quelle poche lacrime fuoriuscite a stento dalla capocchia del mio bulbo teso come una fiera gialda, bruciavano su quella punta come un accesso inferno e barcollai appena. Ansimavo com’avessi compiuto un tremendo sforzo, invece l’avevo soltanto frustata come m’aveva chiesto, le vene ancora gonfie, i nervi tesi ed un pungente dolore attorno attorno al ventre ch’ero in un ossessionante stato morboso. Montai su quel letto installandomi tra le sue gambe e per un istante temetti d’aver ecceduto in quel barbarico rito adamantino. Mi chinai delicatamente a sfiorare quanto le avevo martoriato. Ardeva nelle mie mani la sua pelle non più così ambrata come quando l’avevo legata ma striata e rossa. Gemette a quel seppur lieve contatto.

 

 

T’ho fatto male? Le chiesi con una voce tremante. Era quello che volevo, la sua sibillina risposta che provocante scatenò la mia incontenibile voglia d’entrarle dentro. Mi sollevai e le fui sopra, senza neppure dover separare con le dita il solco ch’incredibilmente fradicio per l’intenso e devastante piacere delle schiaffeggianti percosse delle mia cintura, s’aprì solo senza alcuna resistenza, risucchiando nel suo ostrato perigonio l’invadente e rigida albicocca che gli si presentava, subito inondata dal vischioso lacrimare della carnale tumescenza di quelle goduriose labbra tanto ben disposte ad accoglierla. Senza alcuna dolcezza glielo infilai dentro di getto con tutto il mio vigore, fino in fondo alla radice, le nostre rispettive pelurie potendosi baciare e lei gettò un urlo di spavento per l’acuto dolore del dovermi inghiottire per intero nel suo condotto, bagnato e languente ma non del tutto ancora dilatato. Ed era quel dentro, dopo tanta attesa, come un succoso frutto maturo che deiscente premeva con la sua gustosa attorno all’ispezionante e nuda ghianda del mio turgido balano godente per quell’abbraccio stretto, ansante e dolente. Ero nell’agoniato e voluttuoso sacrario degli umidi piaceri carnali di quella donna sconosciuta e misteriosamente apparsa a pervertire gli oscuri bordi del mio mondo con l’attraente dispiegarsi dei suoi turpi desideri. E quale appassionata e lasciva estasi per il conturbante schianto, sordo ed osceno, dell’imperiosa botta contro i suoi bollenti e scudisciati guanciali rotondi e pieni, piacendomi più d’ogni altra cosa le sue sofferte grida ogni qualvolta quel suo martoriato retro cozzava nella prepotenza del mio ventre, scossa dal costante e trepido assalto dei miei colpi di reni che la infilavano penetrandola fin nel profondo della sua uterina bocca. Riemergevo e di nuovo affondavo nel triviale sciacquio di quegli interni umori, serrando le mie mani attorno ai ferri del letto di modo ch’ogni affondo fosse completo e pieno. Sentivo sotto di me la carne nuda del suo corpo, minuto e fragile, serica e palpitante e, per quanto poteva, assecondava la mia devastante opera ingoiando remissiva e gemente l’intera colonna, parendomi che migliaia di minuscole labbra la suggessero contemporaneamente. Ed ancora la piacente vi sta di quelle sue braccia arrese che non potendo afferrare o toccare nulla la riducevano a disarmato oggetto di solo puro ed inebriante sollazzo del mio più imperioso organo che in un frenetico tumulto non cessava d’entrare ed uscire da quel varco aperto. E nel mio cervello l’indimenticabile odore fruttato e fresco del profumo ch’aveva sul collo. Immaginavo che a frustarla fosse allora la mia verga che veniva fuori da quel santuario mantenendovi dentro appena l’ingrossata e nuda capocchia per rinfoderarla subito appresso, assaporando tutta l’estensione delle sue piacevoli e vibranti mucose pelviche che pur non essendo più una tenera giovinetta, erano ancora strette come non fossero state troppo usate e lei, dimentica del dolore, mugolava soddisfatta agitando la testa com’ossessa ch’era l’unica cosa libera che poteva muovere. Quel suo essere così barbaramente infilata doveva piacerle quasi quanto le precedenti frustate che non cessava di profondere sul mio l’incessante grondare dei suoi lubrificanti umori.

 

Indecente e senza alcun ritegno il cigolante clangore di quel letto, sollecitato in ogni sua minima giuntura, lavorando le sue molle come forsennate operaie del piacere e già pensavo di non scioglierla da quelle compiacenti corde per poter approfittare ancora nell’arco della notte di quelle invitanti labbra che con tanta benevolenza mi contenevano soggiacendo al mio burrascoso impeto ed erano labbra ch’avrebbero confuso qualsiasi sguardo. Non era possibile misurare il tempo nella cornice di quella stanza che del godimento si faceva tempio e nella carnalità di quell’amplesso sull’ambrata sua schiena che sotto la folta peluria del mio torace si snodava suadente strusciandosi come un serpente, repentino il bagliore d’un lampo che come il piacere d’un sussulto prorompe. Un invitante pensiero nero, ancora più turpe ed osceno del prenderla legata e frustata. Un pericoloso baluginare che sfiorò le ricolme vene battenti nelle mie tempie. Prona su quel lascivo talamo, i suoi più intimi organi asserviti all’anghiante vassallaggio dell’aspro tirare delle corde, non avrebbe avuto alcun modo di sottrarsi e a quell’idea provai un fremito di lussuria, lascivo e cupo. L’estrassi fradicio, sbrodolato da quella lubrica giostra che le aveva fatto lanciare piacenti gridolini di gioia, uscendo dai serici bioccoli della sua agevole corolla. L’afferrai per la riccioluta capigliatura, morbida ed ondeggiante, costringendole il viso vicino allo sguardo bramoso dei miei occhi che volevano inchiodare nel ricordo l’immagine, il quadro di quell’istante, il suo corpo schiacciato sotto il peso del mio. Potevo sentire il caldo profumo del suo respiro e la mia mano affondò nella morbida carnosità dei suoi guanciali, l’indice ed il medio separando quella carne ch’ingabbiava l’altra sua cappella e lei richiuse il guscio agghindato delle palpebre serrandole strette. Se ce n’era bisogno, era un assenso. La mia lingua, allora, si sofferma nella tenera conchiglia dell’orecchio, lambendone i bordi nel piccolo foro, la punta dardeggiando in quel meato nel gustoso protrarsi diquell’attesa e lungo l’arco della sua dorsale si scioglie un brivido che lungo la schiena si lancia. Un brivido che sento giungere fin dove le mie dita le divaricano la carne e nell’insostenibile leggerezza di quel fremito i suoi muscoli che si rilassano e morbidi cedono all’abbandono di quell’impietoso momento che forse già era nella sua mente ancora prima che nella mia. Un attimo, un breve istante che da solo può valere tutta quella notte, ancora lunga nei miei pensieri ed un aperto grido vocale ch’unisono si leva in volo dalla sua bocca spalancata per quel profondo oscuro appena squarciato, modulandosi in quell’unica e sofferta nota attorno all’inesorabile dischiudersi di quell’inebriante gemma, morendole in gola che di tutto l’indurito stocco v’era entrato soltanto il glabro puntale. Le brancicai le gonfie mammelle, sentendo i duri boccioli premere dritti contro il centro dei miei palmi come piccoli birilli, colmandomi della gravida voluttà di quella carne. Incurante del poterle rovinare quel suo prezioso gioiello di sicuro piacere, glielo forzai ancora a farvi entrare l’intero bulbo. Non urlò questa volta, gemendo soltanto, soffrendo d’un piacente dolore vibrante, mordendo i drappi del letto ed inarcando appena le reni senza contrarre le cosce. E quale doveva essere il suo strazio per il perfido genio di quel fungo incastrato in quel ciglio, stretto come l’infante mano d’un adolescente al suo primo sopruso. M’arrestai in quell’allettante boccola ad assaporare quella deliziosa tortura che mi strizzava, turgendomi ancora più di quanto non fossi già eretto, sentendo tutt’attorno l’impudica

indecenza di quella trasgressiva periferia carnale, licenziosa e stretta. Se a lei doveva dolerle alquanto l’essere in quel modo slargata, dimostrandolo nelle dolenti note delle sue labbra, a me inebriava i sensi tenendola serrata per le dolci coppe, gonfie di desiderio, carpendole tra le dita le dure pallottoline d’imbronciata carne che tra il pollice e l’indice roteavo, piacendomi al tatto sentirle erette, strizzandole appena e tirandole in un duplice ed onanico massaggio che piaceva ad entrambi, sentendo le lubriche pareti di quel suo grazioso bocciolo appena sfranto che si distendevano, arrendendosi cedevoli attorno a quell’entrato inizio ed ancora lo spinsi dentro per un breve tratto reclamando l’ansante gemere d’un suo lamento che si presentò puntuale, aperto e disteso lungo i bordi delle sue labbra socchiuse, bagnate e lucide. Ma se il mio era di lei completamente zuppo, quello squisito boccone era totalmente asciutto, tanto che in quell’ulteriore entrare mi ritrovai imprigionato in quel condotto, non potendo muovermi e mugolando anch’io per l’arrotolato prepuzio che fragile si tendeva dolente, quasi strappato da quel ristretto passaggio. Se ne accorse assumendo il controllo di quella perversione. Iniziò a muoversi, leggera come un frusciante scialle di seta sciolto nella sinuosa brezza d’un soave alito di vento, quelle stringenti membrane accompagnando quel prolungato, suadente e lento massaggio, avvolgente e guantato che dolcement  blandiva l’asta in lei conficcata, trasformando quella inattesa sofferenza nell’ineffabile fonte d’un piacere estremo e soavemente pervertente. In quel momento compresi che non v’era alcuna fretta di giungere al compimento. Potevo trattenermi e prolungare nel tempo la voluttuosa brama di quell’atto che d’abbiette immagini divorava la mia fantasia. Mano a mano che procedevano quelle morbide oscillazioni contenute, piccole contrazioni mi risucchiavano tra i bordi di quel varco ch’andava cedendo, aprendosi ed assestandosi attorno a quel presente che lentamente s’invasava colmandole i tesi margini dilatati fin quando lei stessa non sentì che l’ero completamente dentro. Il marmoreo contratto delle mie uova sfiorando il sottile spazio tra i due accessi. Iniziai a manovrare quel mio strumento avviandolo alla sua scivolante attività d’andare e venire per quell’immorale condotto di pura e rettale lusuria, in quello stretto parendomi maggiore di quanto già non fosse, il diametro del mio stelo. Le infilai la mano in quel davanti non troppo risentito per l’abbandono. Era ancora liquefatto e lo sentii colare sgranando i brillanti cristalli del suo rosario.

 

Avide le dita titillavano l’intimo cremisi di quei petali, cavandonsospirati e rinnovati languori mentre l’altre continuavano a serrarle la turgida cuspide della mammella. I nostri corpi avvinti, amalgamati in un’unica massa ansante e sospirante gemente. Così incavicchiata, ad ogni sospinto movimento s’andava sciogliendo quell’orifizio, facendosi più agevole e lasco ma sempre tremendamente piacevole nella sua agguantante e strizzante lussuria d’indicibili piaceri, il trepido languore dei suoi rochi lamenti testimoniando il suo godimento per quella lenta processione che poteva aumentare l’intensità del suo ardore. Privo di quell’iniziale dolore non avevo alcun dubbio che quel suo giaciglio potesse reggere a ben più violenti urti e se così non fosse stato, le corde l’avrebbero impedito qualsiasi ribellione.

 

Anche se nulla era davvero in quei termini e sarebbe bastato un solo suo gesto a far cessare quel sovvertente rapporto, al mio io più bestiale piaceva pensarla in quel modo, non dispiacendo neppure a quella mia colonna che in lei pulsava. Dai suoi seni le mie mani scorsero lungo le braccia, sfiorando le ruvide corde accerchiate sui polsi che gl’impedivano il contatto con qualsiasi altra cosa che non fosse il talamo sul quale si sviluppava l’anale incanto di quel suggestivo e coartante rapporto. Ogni minima parte del suo corpo che toccavo con la cupidigia di farla mia, pareva pervasa d’un godente fluido e le sue serpeggianti dita s’intrecciarono nelle mie con una tattile frenesia esasperata dalla forzata cattività e dall’imperioso perdurare di quell’amplesso che se a lei piaceva d’essere presa in quel modo brusco e ruvido, in me scatenava la bramosia d’un piacere che non avevo neppure sognato.

 

Presi a possederla con una foga sempre maggiore entrando ed uscendo dalla libidinosa cappella del suo posteriore che ben forzata e sfregata era oramai completamente aperta, piacendo ad entrambi quel barbarico intrattenimento dell’essere l’uno nell’altra preso. Fu nell’estasi profumata d’un improvviso orizzonte di crudeltà che m’estrassi completamente da quello stringente e adorabile abbraccio che tentò di trattenermi dentro fin nel punto estremo del distacco ch’ovviamente lacerante a lei dolette. Tornai ad immergerlo nell’inostrata deliquescenza della sua più tenera conchiglia, suscitando lo scalpore dei suoi lamenti. Non le dispiacquero affatto quei pochi e bistrattanti colpi che se avessi potuto l’avrei colmata davanti e dietro. L’inzuppai per bene dei suoi più intimi umori e di nuovo glielo presentai sul retro, infilando d’un solo colpo nella struggente delizia di quel gorgo ed inforrandolo con un furioso vigore che non aveva alcuna intenzione di lasciarla neppure respirare. Era mostruoso il piacere che provavo nello sfondarle quella divina gemma che nulla poteva essere paragonabile a quell’aspro desiderio. Una concupiscente ebbrezza ch’andava facendosi sempre più possedente e violenta.

 

Gridava il suo dolore. Urlava il suo piacere e m’incitava quella gola a profanarla ancora più duramente e con la mia stessa cieca furia prese a muovere l’anche, ritirandole ed alzandole in un movimento opposto al mio nella suggestiva e stupefacente sensazione che non fossi io ad affondare nel suo ma lei a copulare sul mio e si contorceva per il delirante piacere ch’andava devastando ogni sua fibra. Si dimenava, presa attorno alla mia vibrante colonna. S’agitava per tutta l’ampiezza che le corde le consentivano, fremendo, vibrando e palpitando. Gemendo e mugolando. L’afferrai i seni strizzandoli, torcendoli, stropicciando tra le dita i suoi piccioli che neppure s’accorse di quanto dovevo farle male, ambedue rincorrendo lo stesso punto dell’estasi ch’a tratti balenava tra i nostri corpi. Come un incarnato demone brandivo il mio indurito scherano nel suo mistico rinchiuso, scivolando avanti ed indietro nel bestiale intento di romperla, di schiantare quel delicato gioiello del piacere abietto e nero ch’invece elastico sempre di più s’allargava in quella giostra lasciandosi figgere fino in fondo. E non era solo mio il godimento di quello strazio, ch’anche essa delirava per quello struggente piacere che le ricolmava gli inchiavati bordi facendo emergere da quel meandri una voluttà intensa e ferale, la sua voce imbevuta di saliva incitandomi in quell’opera. Tra le corde annaspava tremula e fremente nello squassante imperio d’un crescente sgrondare di sospiri, gemiti, rotte grida ed eccitanti monosillabi di consenso ch’ammassavano il sangue nel mio cuore sempre più battente. Ed era magnifica la sensazione di sentire sotto di me il dimenarsi del suo corpo prigioniero che non poteva sottrarsi a quell’impudico amplesso nel suo didietro. Se mi fossi trattenuto ancora le sarei svenuto addosso e proprio in quel mentre me lo sentii torcere e spremere come se volesse d’un colpo solo espellerlo per intero e lei gridò come la stessi ancora frustando con tutte le mie forze.

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Freme in quel dentro l’inizio d’un frullio che vibra e si dibatte. Sento la mia linfa vitale addensarsi ed ogni nervo che lungo la conficcata asta trema e si scuote. Cresce quello spasmo, s’espande ed in vetta a se stesso s’allunga e si protende. Fino all’estremo trattengo l’eruzione di quel piacere inchiodando le mie mani attorno ai suoi polsi senza neppure muovermi nell’ambrate cosce. La vista quasi mi si appanna per il sangue ch’invade la mia testa. Sono attimi bellissimi, insondabili. L’infinito sembra avere un senso e l’universo per quanto complicato e vasto, solo una poca cosa ed è forse in tutto questo il solo senso dell’esistenza. Un intrattenibile istante che non può durare e che vischioso esplode risalendo lungo lo stretto canale come se fosse risucchiato fuori da una gigantesca forza spirante che mi pareva non si sarebbe arrestata fin quando non avesse estratto anche i miei nervi e per intero tutto il midollo che come liquefatto sembrava andargli appresso in quell’estati indicibile. Zampillavo inarrestabili fiotti che scuotevano le reni in lei protese di violenti e sconvolgenti spasmi tanto acuti da superare il piacere stesso. E non meno turbolento fu il suo venire imbrigliato nella trama dei legacci che con lei risuonavano d’un onda montante d’inverecondi e squassanti fremiti. Un orgasmo lungo, denso e profondo mentre in lei sgrondavo fino all’ultima goccia. Un godimento di strazianti sussulti, ribelli torsioni e ripetuti tremiti che per intensità ed ampiezza doveva di gran lunga superare il mio in quel delirio di carne, dita serrate e contratte,corde e sbattere di gambe, sconnesse grida. Uno spettacolo unico e di per se stesso lungamente piacente. Sfinito, senza neppure uscire ed ancora duro in quel suo, m’abbandonai annichilito su quel corpo che legato e nudo continuava a torcersi in preda all’esaltante e prorompente passione d’ondate continue che la flettevano come una canna al vento.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Dall’imposte della finestra serrata e chiusa risalivano confusi mormorii ch’indistinti e vaghi si rompevano tra le stecche della persiana. Fischi. Colpi di tosse ed uno zampante che forse andava a scuola nel tedioso strepere di quel mondo gregario e gnomo ch’andava inutilmente ridestandosi dalle notturne quieti. Tra quelle rinchiuse mura l’impronta languida delle sue iridi gemelle che sfuma, riappare e sfuocata lontana si consuma. Nei panni del letto, il suo profumo, del corpo l’odore, il caldo alitare dei suoi sospiri e nella stropicciata trama di quelle coltri che le mie mani andavano sfiorando, mute e spalancate fosse che richiamavano, aperte bocche, l’eco delle sue grida.

 

Se n’era andata, contro vento, come un gabbiano che con l’ali sfiora la cresta dell’onda dando l’impressione che su questa possa fermarsi, arrestarsi per volare via senza neppure voltarsi indietro. Del tumulto di quei pungenti brividi che ci avevano accomunato, inarcati e scosso in quell’ore ch’andavano morendo, attorno non c’era traccia alcuna come non fossero mai avvenuti.

 

Dovevo averla liberata dalla servitù delle corde – anche se non ho il ricordo d’aver compiuto quei gesti – ed appagato da quel meraviglioso amplesso essermi addormentato tranquillo e sicuro come non m’era mai accaduto con donna alcuna. I  miei abiti erano ancora sparpagliati sul pavimento ma i suoi non c’erano ed ero solo. Sotto l’abat-jour rimasto acceso la mia cinta, ordinata, arrotolata e stretta che teneva un foglietto strappato da una minuscola agendina d’un anno che non era quello ma d’altri più addietro. E quante innumerevoli volte ho rigirato tra le mani quel lembo di carta nella speranza vi fosse altro che magari m’era sfuggito, osservandolo con attenzione perfino in trasparenza con l’animo investigativo di chi ricerca anche solo un dettaglio per quanto insignificante potesse essere, arrivando a passarlo accanto alla fiamma d’una candela nell’illusione che come per incanto potesse apparirvi qualsiasi altra cosa che non fosse quell’unico ringraziamento vergato in inchiostro nero, la calligrafia rotonda e piena. Una sola parola, semplice e null’altro. Grazie.

 

Ricordo che m’accesi un sigaro restando a contemplare le morbide volute di fumo che risalivano nell’aria ed in quelle spirali la sua mancanza, l’assenza che lucida figurava tra quei sinuosi giochi evanescenti che non serbavano tracce disperdendosi e ricomponendosi. Ricordo l’idea folle ed infantile che potesse rientrare in quella stanza come ne fosse uscita soltanto per un momento. Io, nudo sul letto e la lenta brace che consumava il tabacco, appagato per quello che avevo avuto, rimpiangendo quanto avevo perso. Quel giorno in ufficio m’hanno atteso invano. Non ho più usato quella cinta, conservandola negli anni accanto a quel foglietto che con il tempo s’è ingiallito e fatto fragile, perché per quante volte abbia preso lo stesso pulman e fatto colazione al Caffè Grande e per quante altre innumerevoli volte abbia chiesto la stessa stanza all’antica matrona della pensione che non ha mai tradito il suo segreto, io, quello sguardo non l’ho più incontrato.

 

 

FINE

 

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Un incontro fugace sulla corriera, uno scambio di sguardi, l’impensabile epilogo in una squallida stanz…a d’albergo. Un uomo e una donna, uniti, e divisi, dentro e ben oltre il tempo. E il ricordo rende ancor più indissolubili due esseri totalmente sconosciuti.   Sotto il profilo stilistico, non già del contenuto, il racconto si colloca in un circuito di nicchia, presentando oggettive difficoltà ad un lettore ‘medio’, ‘comune’, essendo evidente in ogni sua parte una elaborata tessitura, una ricerca raffinata di sostantivi e aggettivi poco usati o desueti, arcaismi e preziosismi che richiedono a più riprese la consultazione del dizionario. Si ha spesso l’impressione di avere sottomano un testo d’altri tempi, un diverso e singolare modo di ‘sentire’.  Resta in ogni caso, al di là di possibili analogie con altri esempi di genere, un prodotto di elevato livello letterario, decisamente in controtendenza rispetto alla categoria nella quale si colloca.  Riuscita e scorrevole, la parte ‘preparatoria’ dell’incontro fra i due protagonisti; nella seconda metà del testo il parossismo della scena descritta fa talvolta a pugni col turbinio linguistico che cerca di veicolarlo, anche se tutto ciò ha una logica intrinseca.  

Paola Cimmino (Gamy Moore redattrice di Letter Magazine)

 

di Rosa Eva Bavetta

<p>Parlare di BDSM nelle connotazioni di un romanzo  ben costruito e collocato in una specifica collana denominata dall’editore “Incursioni Erotiche” è  impresa ardua. Non è facile e taccio volutamente l’estensione dell’acronimo,  non per la mera finalità… di  evitare atteggiamenti  di prevenzione nei riguardi di un’opera degna di lettura e diffusione, che ha già riscontrato ampi consensi  di pubblico, ma per contribuire a suscitare la sana curiosità di esplorare contenuti  inconsueti e avversi a un certo moralismo, quantomeno nel  campo letterario classicamente concepito.  “Caffè Grande”  di Massimo Mariani Parmeggiani,  è il racconto di agognati e ricercati  frangenti  erotici più unici che rari, che in un sol giorno trovano presupposti e compimento  grazie all’incontro fortuito dei due protagonisti.  Un lui e una lei non più giovanissimi, a fronte di un tacito accordo, colgono il reciproco gioco di sguardi, sorseggiando rispettivamente un caffè e un bicchiere di latte. Come in un’altra epoca,  aggrappati ai canoni di un tardo decadentismo,  l’irrazionalità e il mistero prevalgono,  e  l’obiettivo di un raffinato quanto estremo godimento,  si espleta  nell’atto erotico-sessuale  di un’incognita. Dietro la maschera delle rispettive identità  sconosciute,  i due protagonisti si avvicendano in giochi erotici diluiti nel lungo passato storico del ricordo, unico grande protagonista del romanzo. Narrazione particolarmente  complessa, aulica  e amena  come certi arazzi  che la sola vista inquieta  per l’abbondanza dei particolari intessuti dalla trama e l’ordito, e al contempo rilassa  per la rappresentazione d’insieme.  Il gusto soggettivo si fa da parte, per accogliere e contemplare la finzione narrativa al pari di un romanzo d’avventura. Senza discuterne il contenuto audace, ma ammirando la maestria dell’espressione,  vorticosa e delirante quanto l’azione stessa, ridondante di epiche elisioni, attributi e sostantivi d’antico vocabolario d’alta letteratura. E consapevolmente soggetta al vaglio semantico di una scrittura che accentra e trascina,  nella spirale di abili manipolazioni linguistiche, significanti e significati. Perchè, checchè se ne dica, qui nulla è casuale. Ci vuole coraggio, un’ abilità premeditata e geniale nel tentare di  rompere gli schemi del pudore e sfatare il mito della volgarità che da sempre accompagna certi argomenti, quando esulano dalla sfera della segreta intimità.  Un azzardo ben riuscito.  Nessuna censura, dunque. Ma il plauso sincero all’autore e alla sua scelta del  sentiero più battuto che ha saputo trasformare in territorio d’élite di raffinata narrazione e piacevole lettura.  

Contatta l’autore: http://www.facebook.com/massimomarianiparmeggiani

 

  

A cura di Katia Ciarrocchi

Caffè Grande è il primo volume della collana”incursione erotica” edito Mondostudio, poche pagine (54) per una storia accattivante e intrigante.

Un incontro casuale, un biglietto da visita per non perdersi di vista, l’inattesa telefonata fino a concludersi in una notte di ”fuoco” che rimarrà marchiata sulla pelle come nei ricordi.

Un racconto che per quanto narri scene “pornografiche” non cade mai nel volgare, con uso di termini sottili per descrivere l’atto sessuale in tutte le sue sfaccettature fino a sfociare nel sadomaso, (cosa che intrigherà moltissimo il protagonista alla sua prima esperienza).

Non posso definirlo un Porn Without Plot e sia per il linguaggio usato (come dicevo prima) e sia per una trama, seppur minimale, esistente, ma nello stesso tempo non va al di là di un racconto breve. Questo sicuramente penalizza il libro, manca di sottinteso, coinvolgimento emozionale quale potrebbe essere un libro erotico, e forse anche di quell’esplicito che poco lascia all’immaginazione quale di un libro pornografico.

Per taluni l’erotismo non basta ad eccitare il corpo, per altri la pornografia non è in grado di eccitare la mente”, leggevo tempo fa da qualche parte, forse l’ottimo è saper trovare quella via di mezzo che abbraccia un più ampio pubblico, magari con uno sviluppo maggiore della trama e dei tratti psicologici dei personaggi, tuttavia l’autore dimostra una buona capacità narrativa il ché incuriosisce nell’attesa di leggere ciò che seguirà questo primo volume.

di Katia Ciarrocchi (Libero Libri)

 

Ho letto “Caffè Grande”.

Il mio commento è un po’ di parte perchè conosco l’abilità dello scrittore nell’arte del narrare attraverso uno stile a cui non siamo più abituati.

Il romanzo accoglie subito il lettore.Pagine che,inizialmente,scorron…o lente per diventare sempre più incalzanti e coinvolgenti.

E’ l’incontro di un uomo e una donna che culminerà in un amplesso sessuale a tinte forti,fino ad estremizzarlo.Ciò nonostante,non scende mai nel volgare.Lo stile ricercato,l’abilità nell’uso di parole desuete sapientemente accostate,fanno del racconto,un piccolo capolavoro di alta letteratura.

(Antonella La Monica)

Ho letto Caffè Grande, posso dare un giudizio da lettore, non certo da critico letterario. Una prosa molto ricercata, a volte parole d’altri tempi.  Una situazione onirica del protagonista che nel contempo è uno degli elementi dell’ingranaggio ben oliato della corruzione di questo “Paese”.

(Corrado de Pinto )

 

Ho letto il pezzo di Caffè Grande, quello presente sul sito,visto che il libro non ce l’ho. L’atmosfera mi pare quella di una fumosa e grigia giornata di Londra nell’800, sembra quasi di sentire riavvolgersi nelle poesie antiche di Guido Gozzano…..o i…n qualche romanzo decadente del D’Annunzio…. tutto serve per sottolineareun incontro fra due persone che poi finisce in un incontro erotico….. l’erotismo si sente ma non è un erotismo che avvolge completamente chi legge, è qualcosa ,un incontro, un’atmosfera,un linguaggio di rumori quasi “metallici” che sembra essere la vera essenza dei due corpi, che rende una profonda solitudine. C’è quasi nell’aria una disperazione di vita senza risposta e senza fine… un gioco, dove ognuno è lontano dall’altro e forse, ne chiede un tentativo di vicinanza per scaldare un vuoto interno incolmabile…..

di Viola Galanti

 

Cosa dire…non ho parole, anche perchè mi dispiace ammetterlo non ho il tuo stesso lessico meraviglioso. La storia avvolgente ma il tuo modo di scrivere mi ha incantato!! Complimenti e di nuovo complimenti !!! Al prossimo!!

(Ilaria Stocchi)

 

Ciao, ho letto alcune pagine del tuo scritto, ah a proposito anch’io scrivo ma poesie e brevissimi racconti.Ma a parte questo volevo complimentarmi con te. Scrivere di erotismo  si rischia sempre di scrivere bordeline o cadere nella bieca pornografia o annoiare mortalmente e alla fine dire: bhè, tutto qua?  Hai fatto in modo che tutto questo non accadesse, vuoi per il linguaggio, si sente che c’è la ricerca della parola perfetta da collocare, vuoi per la scorrevolezza e la leggerezza.  Una delle mie scrittrici preferite tra le varie è Anais Nin che leggo sempre con piacere.  Ecco.. ti ho letto con piacere, per me che sono parca di complimenti è un bel complimento sopratutto sincero….grazie.  Ciao Chiara

(Chiara Camillo)

 

A dispetto dell’aspetto (per via delle pagine, della copertina e delle parole stampate, sembrerebbe un libro), si tratta di un aspirapolvere eletronico a velocità variabile. Appena acceso la rotazione, in regime di limitazione di giri, inizia ad aspirare, ad avvicinare a se l’ambiente circostante, comprese le persone ed in particolare l’utilizzatore, probabilmente per via della prossimità.Poi i giri aumentano e con la loro forza attrattivaspirante chi lo ha in mano viene attratto all’interno dove attraverso una serie di filtri, viene spogliato delle sue percezioni esterne (udito, tatto, olfatto etc.) ed una volta cosi depurato viene immesso in un contenitore stagno in cui viene immerso in una realtà parellela con odori, rumori, paesaggi e sensazioni del tutto nuove. Al termine del trattamento il lettore (ops!) viene reimmesso nellìambiente d’origine, ma modificato in un modo irreversibile.

(Gianni Maria Mantegazza)

 

Si dice che nella botte piccola ci sia il vino buono, questo è particolarmente vero per Caffè Grande, un piccolo libro che regala raffinate emozioni. Lo stile mi ha ricordato certi racconti di Edgar Allan Poe, sarà per l’io narrante di cui si sà ben poco, sarà per la forza descrittiva, sarà per la capacità di rendere atmosfere. Ma mentrein Poe il racconto ci porta verso un tragico epilogo, qui la narrazione conduce all’amplesso perfetto in cui l’eros liberatosi dagli orpelli del sentimento e della morale tocca le sue note più alte.

La lingua non è quella banale, approssimativa e sguaiata a cui siamo abituati danni di TV spazzatura, al contrario la costruzione dei periodi è elegante, le parole ricercate e, nonostante il tema trattato, mai volgare.  Alla fine presi dall’elegante fluire del racconto ci si estranea dal mondo e si viene catapultati in un altro tempo e al di fuori del tempo, in cui siamo solo noi e la nostra pulsione più primordiale: l’eros.

E’ un libro da leggere sprofondati nella poltrona con la luce soffusa, un disco di Brahms in sottofondo e un bicchiere di Porto da centellinare come lo sono queste pagine che hanno il pregio di narrarci il nostro sogno più nascosto.

(Massimo Sparagna)

2 thoughts on “CAFFE’ GRANDE

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