IL TRAMONTO DEI TROPICI

190“Per quanto i tecnocrati lo programmino perfino nei minimi dettagli, per quanto i potenti lo manipolino, il calcio continua ad essere l’arte dell’imprevisto”, questo scriveva Eduardo Galeano, scrittore, giornalista e saggista uruguagio in tempi non sospetti. Crolla il Brasile, umiliato in quello che ha di più caro, “o futebol” ma non è solo una partita, una delle tante, muore la poetica bellezza del calcio, decantata perfino da quella fantasiosa ala destra che fu Pasolini. Il Brasile ha due parole per indicare il “gioco”, una per quello dei bambini, il gioco ludico, senza importanza che è “brincar”, l’altra è “jugar” e indica il gioco del pallone che è cosa da prendere molto seriamente. Inutile dire che a “futebol se joga, nao se brinca”. Una delle mie prime lezioni di portoghese, per strada a Rio de Janeiro, Nemmeno ero arrivato che avevo commesso un imperdonabile errore semantico.

 

La Germania ha chiuso un’era. La globalizzazione che arriva dove fino a ieri era impensabile potesse arrivare, è il tramonto dei tropici. Per la cronaca passerà alla storia dei numeri, mai il Brasile aveva incassato sette gol, sette che potevano tranquillamente essere nove. Un paese dove la maggior parte degli abitanti non può nemmeno permettersi il biglietto dello stadio dove si è svolta la semifinale ma dove il calcio è e rimane sogno riscatto e i sogni, i sogni non vanno mai denigrati che sognare è vedere l’invisibile a tutela di tutte quelle illusioni senza le quali l’esistenza non è più tale. Interminabili bottiglie di birra, vuote e sole nel silenzio d’un paese ammutolito fin dentro la foresta amazzonica dove le televisioni funzionano attaccate ad improbabili e rumorosi generatori.

Il Brasile che doveva vincere per forza la “Copa” e il crollo di una giovane generazione di giocatori che non hanno la stoffa dei campioni, devastati da una Germania che pareva stesse giocando una partita di allenamento. E’ la fine di un mito, un mito che è stato anche mio che in quel ‘70 vivevo a Rio e ho sentito tutta l’angoscia, i dramma, lo stupore e l’attonito silenzio quando Boninsegna segnò il nostro unico gol. Poi loro ce ne fecero quattro e il paese esplose in una gioia incontenibile e travolgente. Altri tempi e altri giocatori, il Brasile di quell’anno aveva vinto tutte le partite dalla prima all’ultima. La Coppa non era questa, era alata e mitica, la Jules Rimet, definitivamente portata a casa dai brasiliani proprio in quell’anno vincendola per la terza volta.

Non so quanti lo abbiano notato, io per gioco forza visto che vivevo in quel quartiere, ma la Germania pareva indossasse la maglia del Flamengo, mitica squadra di Rio de Janeiro che insieme al Fluminense ha dato vita agli storici Fla-Flu, apocalittici drerby cittadini  in quel Marcana dove invece si giocheranno la finale i gringos, perché in Brasile sono tutti gringos, non solo i nord americani.

Eppure era cominciata con una carica emotiva degna di un diverso risultato, lo stadio in piedi ad urlare a squarciagola “Ouviram do Ipiranga as margéns placidas” anche dopo che la musica era finita, che essere brasiliano… per un brasiliano è un onore, loro che se nasci sul loro territorio nemmeno si discute di che nazionalità sei.

Il mondo, il mio mondo ancora una volta è cambiato e, anche questa volta si è dimenticato di avvisarmi. Buona vita a tutti voi

 

 

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