NOTTI ROMANE

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C’e’ stato un tempo in cui Piazza Navona era una casba colma di sogni. Sogni che duravano fino alle prime luci dell’alba.  Erano notti bambine dove ogni cosa che non sarebbe mai accaduta… poteva in ogni momento ancora accadere. Il gobbetto cicisbeo leggeva le carte scrutando sulle facce le risposte che le domande d’ognuno volevano sentire e io per scommessa facevo il mangiatore di fuoco racimolando perfino qualche moneta.

 

Garibaldi ancora suonava la tromba a Montesacro che in piazza Sempione ancora era l’odore del caffè torrefatto e nelle osterie di Trastevere quello ch’avrebbe potuto essere il suo fratello gemello ci insegnava a suonare la foglia in cambio di qualche bicchiere di vino. Notti barbare e selvagge che nessuno in realtà attendeva il nostro ritorno, nemmeno noi.

 

A San Lorenzo il barbone ch’aveva recitato nei western spaghetti, i suoi ricordi come se lui fosse stato Lee Van. Io che proietto ai suoi amici il suo film in 16 mm affittato alla San Paolo film. L’aperitivo di ricevimento negli oblò delle lavatrici e i miei di ricordi  che ancora dovevano farsi melanconia. L’ingegnere, cosi lo chiamavano che riparava ogni cosa, con tre frullatori ne faceva uno e lo vendeva per poche lire. L’architetto che raccoglieva cartoni, se gli facevi l’elemosina s’arrabbiava digrignando i denti che quella vita per chi sa quale motivo non l’aveva subita ma scelta. Io di domande però non ne ho mai fatte forse perché quelle risposte in fondo già le sapevo.

 

Barbare e selvagge come un mito pagano quelle notti in una Roma andata e senza ritorno ch’a volte a tratti ricordo come fossero appartenute ad un altro e le ragazze che ad altri appartenevano realmente. Discreto, sinistro e magnifico il fascino della morte ch’aleggiava in quell’aria ferma e quasi stanca, antica come quella città Regina di storia e d’amori sacri e profani. Un’altra di quelle città amate che non e’ mai stata mia.

 

“Sono la freccia della Nomentana!” gridava a squarciagola soddisfatto l’autista del 60 notturno come fosse  ubriaco e, forse lo era davvero. Nella vettura un ragazzo che suonava un violino, un signore che dormiva e una tossica che pareva di stare in un film di Bunuel. Le notti ch’erano mattine a scaricare ai mercati generali, quando ancora si poteva. Caldo, freddo, caldo e freddo, le celle frigorifere, montagne di cassette.

 

Le palpebre chiuse delle persiane, i sogni degli altri che non potevano essere i tuoi e l’idea folle e un po’ bislacca di vincere contro un nemico, lo Stato,  tanto, troppo più grande di te. I pugni levati nel cielo come fossero cieca minaccia a un iddio che disconoscevamo e le rosse nostre bandiere.  Il sangue di quanti non sono più tornati. Gli errori, gli sbagli e tante altre notti ancora come se il giorno fosse soltanto una parentesi tra due brevi crepuscoli.

 

Notti romane, notti bambine, notti perfino un po’ cretine che come i nostri sospiri scivolano via grani d’un rosario ateo e pagano.

 

Ora di notte dormo e nei miei sogni i personaggi dismessi di quelle notti che mi vengono a trovare come vecchi amici che non hanno nulla da raccontarsi essendosi già detti tutto. Ci guardiamo fissi ed immobili come antiche ed inutili cariatidi in questo nostro presente, lontano da quel passato e senza alcuna possibilità d’avere un futuro.

 

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