PAROLACCIA, OFFESA E TURPILOQUIO NELL’ERA DELLA SUA FRUIZIONE MEDIATICA

 

Lo spunto per questa ennesima, e mi auguro amabile, dissertazione sulla sconcezza, non posso negarlo, mi è giunto da soli dieci minuti di visione di un programma televisivo; Radio Belva, in onda su Rete 4. Non credo di aver mai visto nulla di peggio nella mia storia di disattento spettatore televisivo e devo dire, a onor del vero, che ero convinto avrebbe avuto alti indici di gradimento, considerata la valanga di volgari scurrilità, ingiurie, oltraggi ed offese che sono fuoriuscite dal mio schermo credo al plasma o ad altra moderna diavoleria comunque molto piatta. Invece non solo il programma è stato sospeso a causa dell’alto tasso di eloquio osceno ma ha anche ottenuto ascolti praticamente ridicoli e risibili. Cosa che non ha mancato di stupirmi piacevolmente.

In effetti non abbiamo nessuna necessità storica o sociale che ci impone di essere volgari, beceri o cafoni quanto inutilmente offensivi. Del resto perfino il fenomeno Grillo che se agli inizi poteva essere dirompente con i suoi vaffa-day che potevano avere un effetto liberatorio nei confronti della politica a furia di prendere tutti a male parole come una riedizione impoverita di Sgarbi ha finito per perdere quella possibile carica “rivoluzionaria” che anche una parola oscena può avere quando inserita in un determinato contesto. Fin troppo ovvio che quando la trasgressione diventa consuetudine non sortisce più l’effetto desiderato, valendo questa considerazione non solo per il sesso ma per ogni altra attività umana, parolacce comprese.

Che l’improperio possa essere perfino creativo è un dato di fatto finanche letterario al quale chi studia il nostro 300 è abituato. Ne citiamo uno solo a caso, “maledetta la pocta che ti cagò” tanto “creativo” e di uso comune da essere inserito negli statutari di Chiarentana che ne condannavano l’uso in pubblico punendo chi lo proferiva con una pena pecuniaria di V soldi. La “pocta” è da intendersi come porta e l’abbinamento al quale si riferisce lo lasciamo alla vostra notevole e fervida fantasia. D’altronde non può essere nemmeno un caso che il primo frammento di testo scritto in lingua italiana di cui abbiamo notizia contiene quel “fili de puta” dal quale deriva la ben nota parola di uso quasi corrente al giorno d’oggi. Sebbene in realtà la parola “puta” indicasse soltanto e molto castamente le ragazze da marito che ancora non erano convolate a giuste nozze nel qual caso queste avessero dei figli faceva supporre fossero di facili costumi, da qui l’abbinamento che poi è passato alla storia del mal costume.

Ovviamente considerato che discorriamo di volgarità, dobbiamo distinguere la semplice parola sconcia o parolaccia che dir si voglia che appartiene ad un certo e quanto sconveniente costume sociale dall’ingiuria vera e propria che al giorno d’oggi costituisce materia prettamente giudiziaria. Tutto questo per dire che il discorso che ci interessa nulla ha a che vedere con la moralità o tanto meno con l’etica, categorie di pensiero lontanissime dalla società in cui viviamo, è palese che l’uso di un linguaggio triviale è un chiaro segno di debolezza dove chi lo utilizza, lungi dall’essere soltanto un cafone, ammette di fatto di non avere altre argomentazioni da far valere. La differenza sostanziale con un passato dove se ti scappavano certe parole rimediavi dei sonori schiaffi che ti facevano desistere dall’insistere è sostanzialmente nell’uso dei media per veicolare quanto al massimo dovrebbe essere concesso nella sola intimità personale. Leopardi era solito usare le parole di cui stiamo discorrendo nella sua corrispondenza privata ma mai si sarebbe neppure sognato di esprimersi in quel modo pubblicamente. Quella che una volta al massimo poteva essere la lite dal salumiere sotto casa, veicolata soltanto dai pettegolezzi delle ciane, oggi usa la televisione o le piattaforme sociali, finendo per diventare un esempio di comportamento per milioni di persone che si sentono autorizzate a fare altrettanto.

E’ naturale che inflazionando il lessico di ogni possibile sconcezza, mano a mano che si procede verso questa strada si deve puntare sempre più in alto (o in basso sarebbe più esatto dire), per ottenere ogni volta il medesimo effetto dirompente o di sorpresa al punto che durante quei 10 minuti che ho visto della trasmissione di cui ormai avete perso la memoria se siete arrivati a leggere fino a questo punto, Sgarbi (mai cognome è stato più proprio) ha minacciato di tirarlo fuori per mingere in testa ai conduttori.  Non essendo del tutto incolto, il critico d’arte sa benissimo che le parole si depotenziano a lungo andare allo stesso modo di certi atteggiamenti. A supporto di questa mia modesta tesi vorrei portare alla vostra attenzione una semplice parola che perfino una madre badessa non esiterebbe a utilizzare senza alcuna remora: chiasso. Ebbene, oggi nessuno la assocerebbe al suo iniziale significato, indicando un tempo la stradina dei postriboli e solo quella, a furia di essere utilizzata è diventata tutt’altro. Avviata sull’identica strada e mi scuserete l’associazione, anche “casino” che al giorno d’oggi significa più che altro confusione piuttosto che un luogo di piacere a pagamento. Non vi sembri strano che derivino quasi tutte da attività diciamo sessuali come del resto lo stesso “vaffa” di cui abbiamo già detto a proposito dell’uso politico che ne fa Grillo. L’insultare è normalmente scatologico, e questo magari lo potete cercare su Wikipedia che non è che posso fare tutto io, del resto stiamo nell’era del virtuale e un piccolo sforzo per adattarsi bisogna pure farlo.

Mi auguro di non avervi tediato troppo e di avervi offerto qualche spunto di riflessione, una prospettiva diversa per osservare un reale che forse nemmeno ci appartiene ma che non manca di coinvolgerci che lo vogliamo o meno.

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