PENE & PENNE

 

 

Ho studiato lontano dal paese che mi ha dato i natali presso i padri barnabiti e per quanto possa sembrare incredibile, oltre a dattilografia facevamo anche educazione sessuale.  Il professore in questione, secco e allampanato, aveva una di quelle scatolette di legno a coulisse colma di gessetti colorati con i quali sull’ampia lavagna disegnava dettagliatamente giganteschi organi genitali sia femminili sia maschili ma erano quest’ultimi a suscitare la nostra ilarità, a stento trattenuta che in quel tempo comunque, la scuola era un’altra cosa. Probabilmente da giovanissimi studenti quali eravamo non ci rendevamo ancora conto si trattasse di quel “passer” che tanto deliziava la giovane amante di Catullo, scollacciato e ironico poeta delle nostre più antiche origini e non essendo ancora mai stati a Pompei neppure potevamo immaginare che quell’organo facesse bella mostra di se, su muri e strade, indicando i lupanari. Rimanga tra noi, ma quel professore, per qualche oscuro motivo, il canale dell’uretra lo faceva sempre con il gessetto verde e noi, immancabilmente lasciavamo i suoi capolavori in mostra sulla lavagna per la lezione successiva.

I tempi cambiano, la dattilografia è andata in pensione e le piattaforme sociali, dove il virtuale cerca con forza di farsi reale costi quel che costi, hanno fatto decadere anche quella linea di confine che esisteva tra la lingua letteraria e quella parlata, tanto che oramai sdoganato, anche lui, vola di bocca in bocca come un normale intercalare perfino nello scritto esprimendo una appartenenza, una filosofia di scrittura e in taluni casi estremi perfino di vita.  Se le parole hanno un senso, non è sicuramente un caso che la Spagna a noi vicina ed assai più fiera e altera, intercali nel suo parlare un l’organo diametralmente opposto. Molto più di noi attenti, probabilmente, al fatto che dalla bocca ad altro luogo il passo è assai più breve di quanto si possa soltanto supporre.

Dall’intercalare all’utilizzo semantico come ancora direbbe Catullo, a Venere piacendo, è un attimo ed è il romanesco a farsi portatore a livello nazionale di alcune espressioni entrate nel normale colloquiare dei commenti virtuali ch’ogni giorno abbiamo il piacere o il dispiacere di leggere ovunque. Ora bisogna dire che un conto è un Trilussa o un Belli che non essendo affatto ignoranti utilizzano il romanesco come forma consapevole di espressione codificandone perfino una sorta di possibile grammatica. Altra e ben diversa cosa sono coloro che riescono a storpiare perfino il dialetto utilizzando a sproposito alcune espressioni diciamo, per cosi dire, pittoresche dove l’onnipresente membro la fa da padrone, come non bastasse loro d’aver assassinato impunemente il congiuntivo.

Accade che nel momento in cui decidiamo di mettere per iscritto frasi che appartengono esclusivamente al linguaggio parlato dove ci si guarda negli occhi e i gesti, l’ espressione del volto e sopra tutto l’intonazione della voce contribuiscono alla comprensione del senso, ci troviamo di fronte a non pochi problemi. “E sti cazzi” è una di queste espressioni che spesso e volentieri viene equivocata. Si tratta di un mantra liberatorio che nulla ha a che vedere con stupore o meraviglia. Significa che al soggetto in questione non interessa nulla di quello che hai detto e si accompagna al punto esclamativo perché è definitiva, apodittica e, in quanto tale, non discutibile. ”E sti cazzi” pone fine a qualsiasi possibilità di confronto, al contrario del suo singolare “sto cazzo” dove la parafonia (studia le intonazioni che possono cambiare il significato) sarebbe invece importante, esprimendo appieno quella meraviglia impossibile da trasporre efficacemente in modo scritto se non moltiplicando l’ultima vocale. Significando appieno il fatto non trascurabile d’ essere rimasti senza parole porterebbe anch’essa, come espressione, il punto esclamativo, dove aggiungere altro a “sto cazzo” sarebbe assolutamente pleonastico. Può essere interessante notare che questa espressione popolar-idiomatica esprima nel suo singolare una meraviglia d’approvazione, entrando quasi in rotta di collisione con il fatto che le cose brutte vengano associate all’organo maschile, mentre quelle belle, invece, all’organo femminile.

Assai più singolare è invece quando si scende un po’ più in basso, “me cojoni”,  che esprime meraviglia ma con quel disincanto tipico d’un popolo abituato a Papi ed Imperatori e che difficilmente può ancora stupirsi di qualcosa.

In realtà non ha una diretta provenienza da ciò che si potrebbe a prima vista pensare ma si deriva da “mi coglioni”, seconda persona singolare del vergo “coglionare” ovvero prendere in giro, trattare da “coglione” per l’appunto, considerato che presi singolarmente indicano una persona sciocca e incapace.  Quando si parla di quelle zone singolare e plurale hanno la loro ragion d’essere e sono fonte di numerosi equivoci.  Difatti anche quando dopo essere stati trattati singolarmente vengono riaccoppiati, avremo sempre due imbecilli, mentre se sono sempre rimasti sempre uniti indicheranno un uomo o una donna che hanno “gli attributi”.

La lingua non è cosa semplice, nemmeno quando si tratta di farla in salsa verde, figuriamoci se dobbiamo dargli una forma scritta che, a meno di ripensamenti, rimane per i posteri. Forse sarebbe meglio talvolta non scrivere e passare da ignoranti piuttosto che dare libero sfogo alla tastiera e togliere ogni dubbio, parafrasando un antico detto di quando ancora si scriveva con la penna d’oca e le parole avevano tutte il loro giusto peso.

4 thoughts on “PENE & PENNE

  1. Senz’altro una bella lezione! Se poi la smettessimo di usare l’intercalare volgare, e ci impegnassimo a parlare la lingua italiana perfetta, sarebbe meglio. Ma come mi diceva sempre mia nonna; “chi gesticola o bestemmia, o intercala il discorso con volgarità insipienti, è perché non dispone di un vasto vocabolario nel proprio linguaggio”. Che poi ora certe espressioni vengano usate anche da persone colte, può andar bene, se lo fanno solo qualche volta, scherzando fra amici.

  2. Lunedì sera la RAI 1 alle.ore 21 ha mandato in onda onda il film pluripremiato “La migliore gioventù”. Un agglomerato di parolacce che neanche al bar si sentono più e certo non si sentivano negli anni ’70 periodo al quale si riferisce il film. Considerando che la TV è la maestra più presente nelle nostre case non mi stupisco poi del linguaggio dei giovani d’oggi e della loro confusione mentale.

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