SCHERZI DI CUORE

Image00001Non ti muovere, non scendere nemmeno dal lettino. Era agitato il mio dottore, quello della mutua che però non assomigliava nemmeno un po’ al personaggio del nostro albertone nazionale. Mi ritrovai a pensare che finalmente avesse trovato cosa avevo, visto che erano mesi che stavo male ma dalle analisi scoppiavo di salute. Capita spesso che nei momenti in cui mi dovrei preoccupare, mi vengano in mente simili idiozie.

 

Sta arrivando l’ambulanza, tranquillo. Tranquillo? Non ero agitato, come potevo esserlo se non sapevo nemmeno cosa avevo. Quando ero arrivato mi aveva visto, mi aveva fatto un elettrocardiogramma, era cardiologo il mio dottore e questo probabilmente mi aveva salvato una vita che non avevo mai avuto paura di perdere.

 

Non scendere da quel lettino, sta arrivando l’ambulanza. Allora sono grave, si lo ero. Probabilmente domani già sarebbe stato troppo tardi. Erano mesi che ero sempre stanco senza una reale ragione, nelle ultime settimane mi ero gonfiato a dismisura che sembravo l’omino della Michelin ed ero tornato dal mio dottore. Avevamo gli stessi anni e gli stessi trascorsi da, per cosi dire, un po’ “puttanieri” con licenza parlando, motivo per cui avevamo una certa confidenza.

 

Che cosa ho? Gli chiesi, cosa non hai più mi disse lui che come me aveva una certa e innata dose d’ironia. Non hai più il cuore.

 

Lo so, avrei dovuto preoccuparmi a quella notizia, ma non sentendo alcun dolore’ era difficile pensare che stavo male. Saranno contente le mie ex che l’hanno sempre sostenuto gli dissi.

 

Il personale delle ambulanze (dopo questa esperienza mi capiterà di essere un habitué’) è un mondo a parte dal nostro e chi li accoppia ha uno spiccato senso dell’umorismo. Lei era grande e grossa quasi quanto me che sono ingombrante l’altro uno scricchiolo. Mi presero e mi misero sulla loro barella senza alcuna difficoltà. Lei mi slacciò i pantaloni, me lo tirò fuori senza tanti complimenti e ci infilò un catetere.

 

Non è piacevole quando te lo infilano dentro, ma non potei trattenere un mezzo sorriso. Il donnone se ne accorse. Non mi dire che ti e’ piaciuto Ciccio. Ciccio? Credo di aver sgranato gli occhi. Ciccio? Era davvero la fine!

 

No, non mi è piaciuto ma sei la prima donna che me l’ha preso in mano per non farci niente. Lei rise, non farci caso Ciccio, c’e, sempre una prima volta. Ormai ero Ciccio, il fascino che aveva fatto innamora tante donne svanito in un attimo. La vita a volte era veramente beffarda. Non mi ero reso conto che c’era un altro oltre allo smilzo, con il telefonino. Dove vuole andare a Tivoli o a Monterotondo?

 

Qui, non me ne vogliate sempre che ancora stiate leggendo ma è assolutamente necessario aprire una parentesi. Ero vicino Roma, non sono mai riuscito a stare troppo fermo nello stesso posto, e a Roma gli ospedali hanno tutti nomi di santi e questo a ragion veduta, trattandosi di luoghi dove i più si rivolgono spesso a loro con il pensiero e dove, spesso e seppur non volentieri, si entra e più non se ne esce. Il fatto che quei due ospedali venissero chiamati con il nome della località piuttosto che con quello del santo avrebbe dovuto far riflettere anche chi non fosse a conoscenza della loro triste fama. Monterotondo e’ praticamente chiuso e quello di Tivoli assomiglia più a un girone dantesco piuttosto che a un nosocomio. Allora evitiamo il tragitto, dissi, muoio qui che risparmiamo pure la benzina. Non possiamo lasciarla qui disse lo smilzo che mi dava del lei. Quello con il telefonino guardò i due suoi colleghi: non ha tutti i torti però. La triste fama di quei due nosocomi evidentemente era nota.

 

Come spesso accade anche al di fuori delle disgrazie, fu la donna che poco prima aveva infilzato il mio membro a trovare la via mentre lo smilzo che aveva afferrato il mio braccio m’infilava l’ago nelle vene della mano facendomi delle fiale di Lasix. Fatti autorizzare il trasporto da un’altra parte.

 

Una brevissima telefonata, evidentemente nessuno voleva avere sulla coscienza il mio decesso a Monterotondo o a Tivoli, ed ebbi un’altra alternativa, con i santi. Scelsi il Sant’Andrea, forse a causa dell’ambiguità’ di quel nome sia maschile che femminile che in qualche modo titilla la fantasia o per qualche altro oscuro motivo del mio inconscio che non mi è dato di sapere.

 

La barella delle ambulanze, vi auguro di non doverlo mai verificare, è stretta, scomoda e priva di ammortizzatori. In meno di un baleno eravamo sull’ambulanza lanciata in corsa a sirene spiegate verso la capitale lungo la via Nomentana che seguendo l’antico tracciato romano era un susseguirsi di curve e di buche. Se rinasco (tranquilli è solo un’ipotesi esclusivamente letteraria) voglio fare il conducente di ambulanze, seppure gli davo le spalle, si percepiva chiaramente che si divertiva a infrangere tutte le regole del codice della strada senza la preoccupazione di dover pagare le multe. Ovviamente, in quel momento, non mi rendevo assolutamente conto che in realtà la mia vita era nelle sue mani e che, molto probabilmente, me la stava salvando. E’ romantico pensare che le pene d’amore facciano male al cuore, in realtà intaccano lo stomaco, vi fanno venire una più, prosaica ulcera. Con il cuore si muore in santa pace, non avendo questo alcuna terminazione nervosa. Ero fin troppo lucido e l’unico dolore che più che altro era un fastidio, era dovuto alla cannula di quel catetere che mi stava inesorabilmente svuotando. Per quanto possa apparire ridicolo, la mia vita era appesa a una grande, cospicua, prorompente e continua minzione. In effetti in questo Universo siamo poco piu’ che niente.

 

Ogni tanto il donnone che me lo aveva preso in mano mi rivolgeva la parola, credo per controllare se ero vivo, distogliendomi dai miei ragionamenti filosofici sui massimi sistemi dell’esistenza. Una pacca sulla spalla, l’ambulanza che si ferma. Eravamo arrivati.

 

Il Pronto Soccorso, la concitazione di quei momenti che sembrano sempre essere gli ultimi, la gente che ti guarda un po’ curiosa un po’ invidiosa perche sicuramente entri prima di loro e poi la trattativa. Sì la trattativa, perche anche se arrivi su una barella c’e’ sempre la diffidenza che possa trattarsi di una messa in scena. E’ grave’ non è grave e ancora una volta l’imponente donnone che dalla cartellina recita tutti i miei numeri, cifre e parole strane come si trattasse di un esorcismo che però funziona. Entro, mi salutano e se ne vanno quando uno di loro grida: la barella! E già sulla barella ci sono io. Non ci sono barelle. Si tratta di nuovo che l’ambulanza non può andarsene senza barelle. Ti teniamo compagnia ancora un po’ ed io mi scuso per non poter fare i salti dalla gioia.

 

Alla fine esce fuori una barella e fanno il trasbordo. Meglio non chiedersi il motivo per cui sia saltata fuori. Corridoi. Vedi sfilare le luci proprio come nei telefilm di ER, poi ti spogliano e t’infilano un camicione che ti copre tutto davanti ma dietro invece è tutto aperto, quasi fosse una metafora della tua situazione. M’infilano in uno di quei tubi che ti fotografano dentro come sei fatto che sembra fantascienza. Ormai è notte fonda e arrivo in terapia intensiva. Mi attaccano fili, flebo e quel monitor, dove si vede il diagramma del battito del tuo cuore. Se diventa una riga continua hai smesso di preoccuparti. Il letto è tecnologico e si muove, mi fanno vedere come funziona e il campanello per suonare come se io fossi persona capace di chiedere aiuto a chicchessia.  Mi lasciano solo. Mi guardo attorno. Siamo tutti attaccati a macchine.

 

Arriva una dottoressa, sono quasi tutte donne i nuovi medici. E’ giovane, carina e mi parla piano come stessimo in chiesa. M’interroga ed io rispondo a quasi tutte le domande. Sono promosso le chiedo. Torno subito mi risponde lei. Cosi scopro che il tempo non è una costante ma una variabile quando sei in certi luoghi, seppure non arrivo alle medesime considerazioni di Einstein.

 

Quando ritorna, si trascina dietro un’apparecchiatura simile a quelle dell’ecografia quando la tua donna aspetta un bambino. Non sono gravido, vuole vedere il mio cuore. Ho u grande cuore, scherzo. Lei mi guarda. Non sarebbe una cosa buona. E già, annuisco ma non parliamo della stessa cosa. Mi fa alzare il camicione, mi spalma di gel e mi spinge una specie di microfono sul costato. Gli apro il mio cuore che gli svela i suoi più intimi segreti. Sento il mio battito a me sembra normale. Sarò sincera. Avrei voluto dirgli che sarebbe stata la prima volta che una donna lo era, ma considerato che in un certo senso ero nelle sue mani, mi astenni opportunamente da questa considerazione.

 

Le sue parole erano tecniche nell’illustrare la mia situazione. Non compresi molto sennonché in effetti avevo il cuore ingrossato e che non era assolutamente un bene, una parte era praticamente morta e che ero molto grave ma ero arrivato in tempo in ospedale e probabilmente l’avrei fatta. Le chiesi quanto tempo sarei stato li. Mi disse che era presto per dirlo, non lo sapevano. Mi disse di cercare di riposare anche se si rendeva conto che non era semplice.  Cosi scoprii che Socrate in fondo aveva ragione, la verità non solo non esiste ma a volte può essere meglio non conoscerla affatto.

 

Non avevo un orologio, solo il telefonino ma che in quel momento era in una busta con tutti i miei averi e non avevo nessuna intenzione di usare quel campanello. In tutta l’esistenza non avevo mai chiesto aiuto a nessuno e non avevo nessuna intenzione di cominciare in quel momento.

 

L’esistenza mi ha concesso molto e in quei momenti non avendo nulla da fare ti capita di fare i bilanci della tua vita. Cosi mi resi conto di una cosa che mi era sempre mancata,la paura, quell’umano sentimento che ti fa sentire piccolo e, in fin dei conti… umano. Non l’avevo mai provata, nemmeno in momenti sicuramente peggiori di quello. In definitiva stavo male senza soffrire, il che era un paradosso che rasentava il ridicolo. Ero a un pelo dall’ossimoro.  Non avevo paura, ero scocciato, questo si, perche quella cosa esulava dal mio controllo e non vi ero abituato. Se l’esistenza era un’entità, questa ora mi stava guardando e sorrideva come a dire… vediamo se te la cavi.

 

La mattina comincia presto in ospedale e in continuazione ti prelevano sangue come vampiri. In turno c’era Zio. Cosi lo chiamavano che non potevano tutti essere suoi nipoti, sarebbe stato un paradossale caso di… nepotismo. Zio era il più anziano di tutti gli infermieri, praticamente un dottore senza laurea. Non c’era nulla che riguardasse il suo lavoro che gli fosse sconosciuto Ci fummo subito simpatici, espressione che credo renda bene quella strana empatia che si crea tra sconosciuti senza che ci sia alcun reale motivo. Io gli ricordavo un attore, quale non l’ho mai saputo. Lui invece era un personaggio e a me, i personaggi, sono sempre piaciuti. Sei in buone mani mi disse. Meno male, dopo tanti condizionali una certezza.

 

Ancora non lo sapevo, ma ero un caso e m’avrebbero studiato. Con la vita che avevo avuto non poteva essere diversamente.  Non so se vi sia mai accaduto di guardare in televisione la serie del Dott.  House (io l’ho amato quel personaggio sebbene alle avances della Cuddy, io, avrei ceduto fin dall’inizio), ebbene, negli ospedali che sono anche sedi universitarie avviene proprio come in quel telefilm con la differenza che nel mio caso sapevano esattamente cosa avevo, quello di cui non avevano la più pallida idea era di come accadesse. Considerato come già vi ho accennato che il futuro della cardiologia sarà praticamente in mano all’altra metà del cielo, se proprio non ero beato tra le donne, sicuramente ero ammalato tra le donne che ogni situazione presenta sempre due facce e non necessariamente devono essere ambedue spiacevoli.

 

Vengo informato che devo fare un esame, mi infileranno una sonda nella coscia per risalire fino al cuore e dargli un’occhiata. Mi chiedono se sono d’accordo. Non ho il tempo per laurearmi in medicina per saperlo. No, infatti non lo avevo, la mia opinione era per il consenso all’intervento. Ora si chiama consenso informato. In pratica prima di ogni intervento cercano di terrorizzarti raccontandoti per filo e per segno e in ogni minimo dettaglio tutto quello che può accaderti, non omettendo nemmeno la più infinitesimale probabilità come quella che tu possa cadere dal lettino operatorio, sbattere la testa e rimanerci secco.

L’esame era necessario per escludere tutta una serie di fantascientifiche ipotesi dai nomi quasi esotici e stravaganti sulla mia malattia. Solerte una dottoressa dello staff mi porta una pila di fogli da firmare nemmeno avessi chiesto un mutuo. Ora si da il caso che sui documenti io abbia tre nomi e due cognomi che quando alla nascita mi hanno registrato credo non avessero molto da fare. Da solo sono una folla di persone, normale che io non abbia mai sofferto di solitudine. Per esteso chiedo? Ovviamente, l’inevitabile risposta. Le mando l’anestesista, disse raccogliendo tutte le sue scartoffie. Se fossi morto ora, era solo e soltanto colpa mia.

 

L’anestesista donna anche lei, con molta premura mi mette al corrente che si tratta di anestesia locale, una “sciocchezzuola” che oltretutto potrò seguire in diretta sullo schermo televisivo. Ho tutte le fortune…. pensai ma, nella mia particolare situazione cardiaca…e parte con l’illustrarmi tutte le percentuali mortuarie della storia medica di questo intervento, comunque non invasivo, cosa che, in ogni caso non lo rende più interessante. A onor del vero, pur avendo fatto lo Scientifico ma solo perché venivo dall’estero e quella scuola me la riconoscevano senza ulteriori esami, la questione matematica delle probabilità di morte in relazione alla mia situazione non riusciva ad appassionarmi. Era sicuramente un mio limite e non era colpa della dottoressa che si vedeva ci mettesse passione in quello che faceva. La fermai sul pari e patta prendendo la palla al balzo tra le probabilità di perire durante l’intervento e quella di finire sotto una macchina uscendo dall’ospedale. Firmai un’altra pila di documenti. Avevo sempre accanto Zio in questi momenti. Mi sorrise annuendo. Sapevo di essere il suo attore preferito.

 

In terapia intensiva sei solo con te stesso. Anche le visite sono ridotte al minimo indispensabile, giusto per farti sapere che fuori la vita continua nonostante te e, soprattutto, a prescindere da te. Avevo recuperato il cellulare e il suo carica batteria ed era l’unica cosa che mi collegava in pianta stabile con il “fuori” che non potevo nemmeno vedere. Se le finestre c’erano erano alle mie spalle e fuori dalla mia portata visiva. Un’infermiera faceva il the, non quello dell’ospedale, quello inglese che piaceva me e spesso me lo offriva. Sono i dettagli che fanno il tutto.

 

Non mi facevano magiare, scherzai con Zio che non dovevo costare molto all’ospedale. Zio se la rise della mia sciocchezza, la flebo che stavo facendo costava più di 500 euro. Caspita con quella cifra ci potevo mangiare a Parigi da Chez Maxim’s. Ecco, fai finta che stai li. Era un bel volo pindarico di fantasia!

 

Avevo tempo, una cosa che lì dentro non mancava. Mi resi conto forse per la prima volta che non potevo neppure lamentarmi se mai ne avessi avuto voglia, l’esistenza seppure non mi avesse risparmiato i suoi drammi, mi aveva fatto vivere quanto ad altri probabilmente non era stato concesso e non avevo rimpianti né cose che avrei voluto vivere non avendole fatte. Semmai, in un’occasione avrei ben volentieri dato la mia vita in cambio della sua, una cosa che non era stata possibile, l’unica che avessi mai chiesto a quel creatore nel quale non credevo e che per quello avevo bestemmiato con tutto il mio essere non avendo mai provato tanta rabbia quanto impotenza di non poter fare nulla.  Ho sempre avuto la mia vita nelle mie mani, la consapevolezza che a volte poteva non essere cosi, inaccettabile.

 

Domani ti fanno mangiare qualcosa. Un lampo nei miei occhi. Non ti montare la testa, qualche fetta biscottata con la marmellata. Zio ma una buona notizia mai? La buona notizia è che sei vivo, la terapia funziona. “Te pare poco”?

 

 

Durante tutta l’esistenza non avevo mai fatto uso di medicinali, ora ne stavo prendendo in quantità industriali. Non mi fecero mangiare nemmeno il giorno dopo, era disponibile la sala per l’intervento, fredda. Faceva molto freddo li dentro. Cosi ho visto la sonda che entrava dentro di me e mi guardava. A me non parve un bel vedere a loro invece si. Era tutto a posto molto più di quanto avrebbe dovuto essere. Non sarei mai morto d’infarto, al massimo per arresto cardiaco e queste sono soddisfazioni. Dovevo tenere immobile la gamba per tre giorni. Mi riportarono nel mio letto tecnologico che iniziavo a detestare.

 

Alla solita ora, il primario con il suo seguito di studenti. Tutte donne tranne uno. La più piccola tira fuori dal carrello e legge tutta la mia storia clinica che è infarcita di parole altisonanti che per me significano poco anche se a furia di sentirle ripetere le stavo imparando anch’io.  Questa volta il racconto terminava con la coronarografia.Io ero preparato, l’avevo appena fatta.  Molto bene disse il primario, vogliamo auscultare il paziente? Lo volevano. Lo volevano tutti e sembrava non vedessero l’ora di farlo. Chi lo solleva? Chi poteva essere il più stupido di tutti in mezzo a tante donne? Lui, l’unico studente che stava per gettarsi su di me. Cosa fa? E fu il gelo totale e assoluto di quella piccola folla assiepata attorno al mio letto. E lei muoverebbe un paziente che ha appena fatto una coronografia? Noi no, giammai sembravano dire gli sguardi delle novelle dottoresse, solo lui lo farebbe, lui il “pirla”. Termine nordico che rendeva esattamente la condizione umana di quel povero studente passato in solo istante dalle stelle alle stalle. Lo guardai era rosso in viso e imbarazzato. Se aveva pensato a qualche storia con una di loro, ora poteva levarselo dalla mente per i prossimi anni.

 

Il mio era l’ultimo letto venendo dalla rianimazione. Una delle dottoresse non andò via con il resto del gruppo. Rimase vicino al mio letto con l’aria di chi deve dire una cosa importante ed è in imbarazzo. Può sembrare strano, conoscendomi, ma nemmeno per un istante pensai a un colpo di fulmine e che le mancasse il coraggio di palesarsi. Piuttosto a qualche brutta notizia che mi riguardava in prima persona. Invece voleva proprio il mio corpo, anche se non tutto, anche se non quello che io volentieri gli avrei donato. Voleva il mio corpo ma in parti assolutamente insignificanti e per certi versi neppure troppo edificanti.

 

Diedi il mio consenso, sempre informato e pluri dettagliato, donandomi alla scienza. Mi avrebbero studiato a Boston. Sarei servito all’umanità’ futura. Sangue e urina. Non le serviva altro. Poca cosa per salvare l’umanità dalla mia malattia. Firmai la solita tonnellata di carta. Sarebbe tornata per i prelievi. C’era Zio in giro mi fece con la mano il segno che era “ok”.

 

Mi prese il braccio destro per il prelievo con una certa energia, nel farlo la mia mano andò a finire assolutamente involontariamente proprio sotto il suo abbondante seno. Lei si fece rossa in volto, io sgranai gli occhi e Zio che era proprio dietro di lei sorrise. In realtà non era proprio un sorriso, era quasi uno sghignazzo. La prima volta non prese la vena. Zio la guardava dall’alto con sufficienza, i suoi occhi dicevano che era una pivellina. I miei gli dicevano che il braccio era il mio. Mi rispose muto che non poteva farci nulla, prima o poi la vena l’avrebbe trovata. Il mio sguardo sillabò “ma sei stronzo?” e lui annui.

 

Ci vollero tre tentativi ma avevo in mano un suo seno e a occhio e croce dovevo avere più del doppio dei suoi anni. Avrei potuto vantarmene senza in realtà mentire che è cosa che non mi è concessa e poi vuoi mettere oltretutto la soddisfazione di salvare le future generazioni?

 

La giornata non era finita anche se in realtà era difficile distinguerle una dall’altra. Il solito carrello ma un diverso codazzo di studenti. Come gli altri, si fermarono ai piedi del letto, cosa che già in se aveva sempre qualcosa di preoccupante. Erano nuovi, non li avevo mai visti. Avevano i risultati della TAC di quando ero entrato, ne avevano discusso tra di loro e ora mi mettevano al corrente che c’era un sospetto di tumore. Linfonodi, era necessaria una biopsia. Se ero d’accordo, l’avrebbero eseguita tra qualche giorno, questa volta in anestesia totale perche purtroppo era proprio dietro l’aorta. L’intervento aveva la sua solita dose di rischio quantificabile in precise percentuali che non volevo sapere.

 

Non glielo dissi a mia figlia, non c’era motivo e  questa volta non feci nemmeno perdere del tempo inutile all’anestesista che sicuramente aveva altro da fare che mettermi al corrente di come sarei potuto decedere. Firmai subito la solita pila di documenti senza starci troppo a pensare che comunque era un esercizio inutile.

 

Dentro di me era sceso il silenzio. Per un qualche oscuro motivo che mi è sempre in seguito sfuggito, cominciavo a pensare che non sarei più uscito da quell’ospedale. Di tutti i modi per andarmene ne avrei preferito uno più eroico e, comunque essere io a deciderlo e non un linfonodo qualsiasi senza arte ne parte.

 

La cosa peggiore è l’attesa, quel tempo che si dilata sospeso e che invece di consumarsi lui, consuma te. Il cellulare mi collegava a Facebook che non sapeva né dove ero né cosa mi stava accadendo. Gli amici, quelli reali che non erano soltanto account, sapevano, più che altro tramite mia figlia. Nelle loro bacheche, senza svelare nulla, facevano vignette che solo io potevo capire. A modo mio gliene fui grato Il tempo, quello non passava mai scandito dai prelievi e dai codazzi dietro ai primari. Ormai non ricordavo più da quanto non mangiavo che ogni operazione comportava il digiuno. Avevo la conferma, pur non avendone la necessità, che la felicità è fatta di piccole cose. Mangiare, scendere dal letto e camminare e quel “fuori” che cominciava a mancarmi come fossi carcerato.

 

Si vuole fare la barba? La barba?…La barba pensai toccandomi il viso. La barba. Non c’erano specchi. Non dovevo essere un bel vedere, io che anche per andare a gettare la spazzatura mi radevo come se dovessi uscire il sabato sera. Non potevo farmi la barba a letto. Chiesi dov’era il bagno. Sorrise l’infermiera, erano tutti estremamente gentili in quel luogo. Non ci sono bagni in terapia intensiva disse, gliela faccio io. Credo che rimasi in silenzio a lungo prima di risponderle che andava bene.

 

Ora se siete l’altra metà del cielo non potete sapere cosa significhi avere il pomo d’Adamo e cosa comporti l’idea di farselo toccare. Farselo toccare oltretutto da una donna che utilizza la lama di un rasoio per quanto di sicurezza, non è una cosa piacevole. Peggio di quello solo la consapevolezza che non c’erano bagni di tutte le notizie che avevo ricevuto in quei pochi giorni, la più spiacevole.

 

Oggi ti fanno la biopsia. A che ora Zio? E mo voi sape’ troppo. Betta ha fatto il the, lo vuoi? Quello lo puoi prendere. Certo che lo volevo, senza zucchero. Lo so mi rispose Zio. Non ne dubitavo ma non si sa mai.

 

Ricordo che sulla barella chiesi quanto ci voleva per l’operazione e la risposta: sei già stato operato tra un po’ ti riportano in dietro. Mi toccai la gola che la sentivo un po’ tirare. Ecco perché mi aveva fatto la barba pensai più o meno cosciente, erano entrati appena sotto la gola e quello che sentivo era un grosso cerotto.

 

Ho sempre avuto poca simpatia per le fette biscottate. Non le ho mai capite. Sono secche, impastano la bocca e se le inzuppi in qualche liquido si disfano prima di arrivare alla bocca. Per “supportare” della marmellata esistono cose decisamente migliori e maggiormente degne di nota sia per il palato che per lo sguardo. Erano solo quattro e una confezione di confettura di poco più grande di un cucchiaino. Credo di non aver mai mangiato qualcosa con più gusto e lentezza stando attento a non sprecare nulla, nemmeno le briciole. La felicità è veramente una piccola cosa. I più non la troveranno mai pensando sia grande e totale. Ed essendo piccola dura anche poco, come quelle fette biscottate. Al solito Zio mi guardava. Secondo me cercava di ricordare quale fosse il suo attore preferito al quale somigliavo. Ogni tanto tiravano una tenda tra un letto e l’altro e non sempre era una cosa buona. Avevo molto tempo per pensare e nemmeno questa era una cosa buona quando aspetti i risultati di una biopsia e hai finito le fette biscottate.

 

L’attesa. Ho sempre cordialmente detestato gli addii, le partenze, le stazioni. Ho amato invece il viaggio, in quanto tale, fine a se stesso non dando nemmeno molta importanza alla destinazione e meno che mai all’arrivo che del viaggio, altro non significa che la fine. Lungo il corso di un’esistenza movimentata avevo raccolto montagne di libri, immagini, canzoni, mobili, argenteria, dove ogni piccolo pezzo aveva una storia, un suo motivo d’esser stato acquistato o era anche soltanto l’emblema di un ricordo, qualcosa appartenuto alla famiglia, a una persona che aveva incrociato la sua strada con la mia lasciando un segno, piccolo o grande che poteva essere che io, io altro non ero che tutti quei segni. Mi sarei disfatto d’ogni cosa, dalla prima all’ultima, perfino di quelle che avevo faticato a rientrare in possesso. Mi rendevo conto per la prima volta di non averne mai avuto bisogno e che tutti quegli oggetti con tutto quello che rappresentavano erano sempre stati in me, in ogni momento. Io che di quelle cose ero stato geloso come mai ero stato geloso d’una donna, una cosa che mi hanno sempre rimproverato.

 

Non lo avevo ancora fatto che già mi sentivo più leggero, come pronto per un altro viaggio. Quante volte avevo ricominciato? Ne avevo perso il conto che quando mi capitava di ricordare la mia esistenza a tratti non uniformi, nemmeno mi pareva la mia ma quella di tanti altri.  Sorrisi a me stesso per quella considerazione, ma soltanto perché era notte fonda e non avrei potuto sorridere ad altri. In tutto quel tempo non avevo mai suonato il campanello ed era l’unica cosa che ancora mi legava a quello che ero stato prima di entrare li dentro.

 

Stanno per venire con i risultati, mi annunciò Zio che sapeva sempre tutto quanto avveniva in quel reparto. Lo guardai, lui mi guardò, hanno fatto presto disse. E’ un bene? A volte si a volte no, hai una linfadenite cronica e reattiva, aspecifica, associata ad antracosi istiocitaria. Quindi? Chiesi non avendo capito ovviamente nulla sempre che tutte quelle parole significassero realmente qualcosa che non sapevi mai esattamente quando dicesse qualcosa di veramente serio o menasse il can per l’aia, per non dire di peggio. Non è un tumore, in pratica non hai un cazzo! A parte il cuore, dissi io, quasi sperando che si fossero completamente sbagliati su tutto.  Bhè non hai manco quello se è per questo disse lui, il cuore e fece quel gesto con la mano che si fa quando qualcosa è finito. Ancora due giorni e poi vai in reparto. Stasera ti danno pure qualcosa da mangiare. Ma quando mi mandano via Zio? E chi lo sa, si vede che gli sei piaciuto e si sono affezionati.

 

Due giorni in un luogo di degenza come quello, potevano apparire come un tempo estremamente lungo e, in effetti, lo furono, sebbene i pasti lo frazionarono diversamente. In realtà avrei solo varcato quella porta, non troppo lontana dal mio letto che mi era sembrata una meta  quasi irraggiungibile. Ero ormai ufficialmente un uomo senza cuore e se le mie tante ex lo avessero saputo, sarebbero state contente di aver avuto ragione che, molto probabilmente, più che aver amato, sono stato amato.

 

Avevo imparato a memoria il diagramma del mio cuore sul monitor di controllo. Era l’unico programma che davano su quel televisore e ora sapevo che quel picco strano e quasi sincopato era la cosa con cui avrei dovuto convivere finché non si fosse arrestato del tutto. In quell’ospedale mi avevano salvato la vita, una cosa che se per me aveva una certa importanza, per loro rientrava nella normale amministrazione di tutti i giorni. Ero dimagrito venti chili quando mi pesarono. Tutta acqua che avevo restituito e che mi aveva gonfiato. Di buono c’era che la mia vita tornava per certi versi, per quanto contorti, nelle mie mani com’era sempre stato. Nel momento in cui avesse cessato di porsi con tutta la meraviglia che aveva sempre avuto, sarebbe bastato interrompere i medicinali. Una cosa che in qualche modo mi restituiva quel senso di megalomane onnipotenza che aveva sempre contraddistinto il mio volo nel mondo.

 

Stavo male senza soffrire, una condizione invidiabile in quel luogo, dove solitamente avveniva l’opposto. Me lo aveva spiegato Zio con la sua solita ironia. Molto probabilmente ci eravamo stati simpatici perche ci eravamo riconosciuti uno nell’altro, ambedue eredi di una romanità in cui le statue parlavano e che s’era dispersa in quel tempo globalizzato dove ogni cosa era uguale all’altra.

 

La giovane dottoressa alla quale mi ero gioiosamente donato e della quale, soprattutto, avevo avuto il piacere di tenere in mano un seno, era tornata a trovarmi, per ringraziarmi. Evidentemente per i suoi studi o la sua carriera, i miei liquidi corporei dovevano aver rivestito una certa importanza. Naturalmente, seppure mai un giorno dovessero scoprire i motivi del mio male, non credo che faranno mai menzione del fatto che a salvare l’umanità sia stato un po’ di sangue e una mia minzione. Non avrò mai un busto al Pincio tra Garibaldi e Mazzini e di questo dovrò farmene una ragione.

 

Ma non hai mai fatto nulla in televisione? Mi chiese Zio. Si, avevo fatto qualcosa ma per sbaglio e non era assolutamente possibile che l’avesse visto. Allora sarà stata quella volta. Dovevo essere per forza un attore, non c’era niente da fare. In un altro luogo dov’ero vissuto ero diventato medico a mia insaputa. Non è facile essere se stessi.

 

 

Non feci molta strada.  Mai viaggio della mia esistenza fu più breve, rapido e veloce. La mia stanza in reparto era subito dopo quella porta, a destra e, da quel momento, la mia storia divenne  quella di tanti altri.

 

 

 

 

 

 

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