UN CAFFE’ CON LA SANDRELLI

 

Era l’ottantatre dell’altro millennio, quello di rabbie, amori e grandi delusioni. Dismessi i panni da operatore, vestivo quelli meno intellettuali e più comodi del macchinista. Renzo Rossellini jr, allora presidente della Gaumont Italiana aveva dato vita a una singolare scuola cinematografica. Una meteora. Così, dopo un periodo d’astinenza, rientravo dalla porta di servizio, che l’amor mio non era affatto morto.

In pochi avranno avuto l’opportunità di vedere Juke-Box, il film prodotto da quella scuola per l‘Opera Film, per quanto presentato perfino al Festival di Venezia. Molti invece, me compreso, si appassionarono a quanto, nel frattempo, veniva girato proprio nel teatro accanto. Era un’impresa ardua, superiore alle umane e fallaci possibilità resistere alla tentazione. Imbracciato un fascio delle ben note cantinelle, il martello morbidamente pendulo e disinvolto nell’altra mano – che non è possibile appenderlo alla cintura perché farebbe carpentiere: una cosa disdicevole nell’ambiente, dato che quello dei macchinisti è un fiorentino forgiato a mano – tentai l’ingresso nel modo più semplice, dalla grande porta insonorizzata e semi aperta del teatro.

 In effetti era banale e approssimativa come idea e non dovevo essere stato l’unico ad aver avuto quell’illuminazione. Nei giorni che sopravvennero tentai nuovamente dalle cabriate, dato che i teatri di posa sono l’uno all’altro collegati, salendo fin sulle passarelle che in alto quadrettano il cielo di quei magici capannoni e, in quel risalire “l’erti” e scomodi pioli di ferro, la mia fantasia pregustava un piacere assolutamente voyeuristico. Ma, in quel buiore mi sorrise, nuovo e luccicante, un enorme lucchetto beffeggiante e sardonico.

Non funzionarono nemmeno i miei puerili tentativi di corrompere la sicurezza. D’altronde io offrivo della sconosciuta ed inope celluloide per la regia, tra gli altri di Carlo Carlei e Daniele Luchetti, allora priva di una qualsivoglia attrattiva. Loro, invece avevano La Chiave! Una modesta delusione la mia in un millennio che ne avrebbe portate di ben più grandi. Allora accade. Accade una di quelle piccole magie dell’esistenza che taluni chiamano ‘il caso’. Una minuscola farfalla dall’altra parte dell’oceano, che neppure sapeva della mia esistenza, sbatté all’improvviso le sue ali e quella microscopica onda d’urto si propagò nell’aria andando a cozzare proprio contro una delle lampade del set di Juke-box e, d’incanto, quella lampada si fulminò e si schiantò. Trovarne un’altra, per una produzione che conta i centimetri di pellicola, è un’impresa che richiede tempo e qualche favore. Una pausa di lavorazione. Una pausa che richiede obbligatoriamente un caffè.

 Lo sorseggiai nel bar di fronte all’attrezzeria, gli occhi socchiusi per una durata superiore all’attimo, che quando mi volsi per posare la tazzina sul bancone, lei era li, poco distante da me in una tuta di velluto, larga ed informe: quanto di meno sensuale possa contenere un corpo di donna. Credo che avvenne in quel momento che compresi il senso del fascino, quell’eterea, impalpabile ed inspiegabile sensazione che talune donne ammanta e attorno a loro si diffonde a prescindere d’ogni cosa, anche dall’esser avanti negli anni o avvolte in una tuta.

C’eravamo tanto amati scorreva dolcemente nel lungo palpito del mio sguardo sognante ed imbambolato. Fotogramma dopo fotogramma, battuta dopo battuta, ogni scena fissata nella mia memoria come fosse qualcosa da me realizzato, nell’impossibile desiderio d’esser almeno uno dei tre amici amati dalla Stefania Sandrelli e, potendo scegliere, Nino Manfredi, quello che nel film l’aveva sposata. Quante volte avevo proiettato quel film nei circoli d’essai d’un tempo andato, ogni volta rivivendo la magia di quel sogno. E lei, lei rise. Rise in quel suo modo scanzonato, bambinesco e malizioso, contenuto e pieno ed innocente. Rise al suo interlocutore che mi era di spalle e mi rimase sconosciuto, come ogni altro avventore di quel momento, poiché in quel bar c’eravamo solo io e lei, illuminati dall’alto da un invisibile occhio di bue che da tutti ci isolava. Rise perché era bella, perché 1510959_564354490309381_753043677_nera consapevole della sua bellezza e del suo fascino. Perché sembrava ingenua e forse non lo era. Perché molti avrebbero pagato argento per possedere la chiave del suo corpo, ma oro per possedere quella del suo cuore. A me, invece, piace pensare che la Sandrelli quel giorno rise soltanto per il sottoscritto, affinché un giorno potessi vantarmi d’aver preso un caffè insieme a lei, nel bar della mitica De Paolis.

2 thoughts on “UN CAFFE’ CON LA SANDRELLI

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